Estratto dell'articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera”
Premessa numero uno: non si difende il diritto di qualcuno di uccidere qualcun altro. Makka — per capirci — ha ucciso il padre e non aveva il diritto di farlo, anche se lui era un violento.
Premessa numero due: le indagini sono appena cominciate, quindi il racconto nero di questa diciottenne — per quanto risulti finora veritiero — è ancora da verificare fino in fondo.
Eppure, più entriamo nei dettagli della storia, più leggiamo le parole affidate ai suoi foglietti diventati diario, più ci scopriamo a empatizzare con lei, a comprendere il suo tormento, il suo dolore, la sua rabbia.
«Non avevo mai osato affrontare mio padre, né oppormi a lui. Ma i maltrattamenti duravano da tempo perché fanno parte della sua cultura, del modo di intendere i rapporti con le donne», […] «Ho paura che i miei fratelli maschi copino il comportamento di mio padre», dice uno dei suoi appunti. E ancora: «A volte prende mia madre, la trascina davanti ai miei fratelli maschi e insegna loro come si tratta una donna»; «Chi troverà questo scritto capirà, o io sarò morta o sarà morto lui».
[…] E adesso? Che ne sarà ora del futuro di Makka? Nei sistemi giudiziari anglofoni (soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Canada, in Inghilterra, Nuova Zelanda...) esiste ed è utilizzata nelle aule giudiziarie la «Sindrome della donna maltrattata», la Battered Woman Syndrome (Bws) , come la chiamò la psicoterapeuta Leonore Walker alla fine degli anni Settanta.
È un disturbo che può incidere sulla reazione di una donna di fronte a violenze ripetute. Reazione che può essere giustificata (a volte fino a farla assolvere in caso di omicidio) anche quando non è proporzionata rispetto al fattore scatenante. E questo perché si tiene conto di violenze, mortificazioni, denigrazioni avvenute nel tempo che possono portare, appunto, a una reazione esplosiva anche davanti a un nonnulla.
I casi raccontati dalla letteratura giuridica parlano sempre di coppie (quindi di lei che fa del male a lui) e della Bws che entra in scena per definire attenuanti o concedere la legittima difesa. Ma chi dice che Makka non possa soffrire della Sindrome della donna maltrattata anche da figlia?
In Italia la Bws è entrata in un’aula di giustizia la prima volta un paio di anni fa. Ne parla in un intervento per l’Osservatorio Violenze sulle Donne, l’avvocata Emanuela Fumagalli, che racconta il caso seguito dalla sua collega di studio, Silvia Belloni.
La storia era quella di una donna che, a Milano, aveva ucciso il marito dopo anni di maltrattamenti. Quella donna è stata in carcere tre giorni, il resto della condanna, 5 anni, l’ha passata ai domiciliari. Una pena lieve rispetto all’accusa, grazie al fatto che l’omicidio volontario è stato derubricato in omicidio preterintenzionale e grazie a una serie di attenuanti fra le quali quella della provocazione.
Ecco. Per ottenere l’attenuante della provocazione l’avvocata Belloni si è rivolta alla Cassazione portando in dote una consulenza nella quale si diceva che la donna soffriva proprio della Bws. La Cassazione valutò il caso e lo rimandò in appello dicendo, in pratica, che non era stata considerata la provocazione «per accumulo», cioè per «la pregressa violenza su cui si era innescata la reazione dell’imputata». I giudici del nuovo processo a quel punto tennero conto della provocazione «per accumulo» e per farlo utilizzarono la diagnosi della Bws. Un precedente che apre le porte, da noi, alla Sindrome della donna maltrattata e che potrebbe essere la via americana, chiamiamola così, per portare Makka lontano dal carcere. […]
ARTICOLI CORRELATI