Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera”
La Gioconda è l'«albero che nasconde la foresta», un totem del patrimonio che non aiuta la nuova creazione, un «oggetto alto 79,4 centimetri, largo 54,4 e profondo 14 millimetri» che come un buco nero attrae tutto l' interesse a scapito di altri capolavori (anche l' enorme «Le Nozze di Cana» del Veronese, appeso lì accanto, passa inosservato).
Provoca bisticci con gli italiani che gridano con riflesso pavloviano «ridateci la Gioconda!» a ogni screzio con i francesi, ma la sua presenza al Louvre è anche la traccia di una antica grandeur alla cui scomparsa, quando in città mancano mascherine e tamponi, Parigi dovrebbe finalmente rassegnarsi. Per tutte queste e altre ragioni, dice Stéphane Distinguin, è venuto il momento: vendiamo la Gioconda.
emmanuel macron stephane distinguin
Cediamola per almeno 50 miliardi di euro a qualche principe arabo, o facciamone la garanzia di una nuova moneta virtuale, o mandiamola in tournée nelle Puglie per far ripartire il turismo. Un' idea poi non così folle, che fa discutere da quando, qualche giorno fa, è stata lanciata sulla rivista Usbek & Rica dal fondatore della società Fabernovel, specializzata nell' innovazione digitale (molti clienti tra i quali Le Monde , i taxi parigini G7 o Canal Plus).
Signor Distinguin, davvero vuole vendere la Gioconda?
«Penso che potrebbe essere un buon affare, da un punto di vista economico e anche culturale. A tempi straordinari, risposte inedite. Il settore è a pezzi, la famosa eccezione culturale francese rischia di svanire, gli unici ad avere i mezzi per tentare qualche reazione sono i colossi americani, come Netflix che da qualche giorno propone sulla sua piattaforma anche i film di François Truffaut».
E quindi?
«Vendiamo il gioiello di famiglia, per finanziare il rilancio di un mondo della cultura che altrimenti rischia di non sopravvivere al coronavirus».
Quali reazioni ha raccolto la sua proposta?
«Le più varie, dai nostalgici della monarchia che inorridiscono, ai conservatori che scuotono la testa perché il patrimonio coincide con l' identità di un popolo, ai più progressisti che comprendono la mia voglia di guardare avanti.
Poi ho avuto anche amici italiani che mi hanno ripetuto come sempre "La Gioconda è nostra", benché sia stata acquistata dal re Francesco I».
Lei cita il «Salvator Mundi» di Leonardo da Vinci, messo all' asta a New York nel 2017 e venduto a un miliardario saudita per 450 milioni di dollari. Ma la Gioconda non è inestimabile?
«Possiamo provare ad azzardare un prezzo. Diciamo come minimo cento volte il "Salvator Mundi" di Leonardo? Teniamo contro che l'"Uomo vitruviano" fatto arrivare a Parigi per i 500 anni è stato assicurato per un miliardo. Possiamo stimare che la Gioconda frutti al Louvre e indirettamente all' economia francese (tra merchandising, alberghi e biglietti aerei) grosso modo tre miliardi di euro l' anno. Cinquanta miliardi mi pare ragionevole, perché l' operazione abbia un senso bisogna chiedere una cifra enorme. Sull' opportunità di tentare una valutazione c' è il precedente di Detroit, la città che in pieno fallimento nel 2014 chiese a Christie' s di stimare i capolavori del suo museo: 866,9 milioni di dollari ».
Ma a lei la Gioconda proprio non piace?
«Non particolarmente. La trovo un po' inquietante, suscita troppe passioni, molto nazionalismo. Possiamo chiederci se sia francese, italiana o se invece appartenga all' umanità. Il fatto che Monna Lisa sia una donna poi forse ha qualche peso, è oggetto di un' antica e superabile ossessione del possesso. Liberiamocene, alleggeriamoci del fardello del passato. Facciamo fruttare la Gioconda in modo diverso, più moderno.
Potrebbe essere il primo passo verso un nuovo sistema di sostegno alla creazione artistica».
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