Guido Olimpio e Guido Santevecchi per www.corriere.it
El Chapo messicano è rinchiuso in una prigione Usa e i suoi non lo hanno dimenticato. Manovrano, si agitano. La battaglia di Culiacan in difesa di uno dei figli del boss ne è la prova. Sono, a loro modo, ben visibili. L’opposto del padrino della droga che ha costruito il suo impero sull’altro lato dell’Oceano Pacifico e non solo. Il suo nome è Tse Chi Lop.
Cinese di 55 anni, passaporto canadese, è il criminale più ricercato dell’Asia. Comanda un «cartello» di trafficanti legato a cinque Triadi. Nel 2018 ha guadagnato tra gli 8 e i 17 miliardi di dollari, secondo stime dell’Unodoc, l’agenzia Onu che si occupa di droga e crimine. «Tse Chi Lop è la versione asiatica del suo “collega” messicano e del colombiano Pablo Escobar», dice Jeremy Douglas, direttore Unodoc per la regione orientale.
Segnalato a Bangkok, dove sarebbe protetto da una squadra di kickboxer thailandesi, a Macao, dove in una notte ha perso 66 milioni di dollari al casinò, Tse vola su un jet privato. La caccia è guidata dalla polizia australiana, in collaborazione con investigatori di altri venti Paesi. La storia di questo venditore di morte è stata ricostruita dalla Reuters, in un’inchiesta durata più di un anno e pubblicata ieri.
L’«Azienda», come la chiamano gli adepti, è specializzata in metamfetamine, eroina e ketamina, spedite a tonnellate in una dozzina di Paesi, dal Giappone alla Nuova Zelanda. Una struttura tentacolare con dimensioni globali. La polizia taiwanese, infatti, descrive Tse come l’«amministratore delegato di una multinazionale».
Alla rete del «most wanted» la polizia ha dato il nome Sam Gor, che in cantonese significa «Fratello numero tre» ed è anche uno degli alias di Tse. E nella regione di Canton comincia la storia del narcotrafficante: subito dopo la Rivoluzione culturale maoista un gruppo di Guardie Rosse cadute in disgrazia costituì una banda criminale chiamata Grande Cerchio, simile a una triade. Il giovane Tse aderì e come altri banditi si trasferì a Hong Kong, poi si rifugiò in Canada nel 1988.
Era diventato un trafficante di eroina di medio livello. Lo ritroviamo arrestato a New York nel 1998. Sfuggì all’ergastolo sostenendo di avere i genitori in fin di vita, bisognosi di cure continue, anche il figlio sarebbe stato malato ai polmoni. La storia lacrimevole fu creduta e la corte americana gli diede solo nove anni. Scontata la pena nel 2006 tornò in Canada e scoprì le metamfetamine. Dice ancora il dossier della polizia australiana: diversamente da El Chapo e Pablo Escobar, che conducevano vite esagerate, il cinese si mimetizza e soprattutto ha dato al suo «cartello» un’organizzazione estremamente disciplinata, degna di un’agenzia di intelligence.
Niente sparatorie e rese dei conti spettacolari, come in Messico, dove tutto è più cruento. Solo lunedì, in Michoacan, hanno sterminato 13 agenti in un’imboscata, attacco rivendicato dai sicari di Jalisco, fazione che «tratta» anche il fentanyl, potente stupefacente che arriva spesso dalla Cina a conferma di una realtà transnazionale. La sostanza è micidiale ed è spesso contrabbandata in direzione degli Stati Uniti insieme all’eroina. Le notizie di massacri fanno da sfondo alle mosse dei parenti de El Chapo più famoso, il messicano Joaquin Guzman.
Loro provano a rifarsi un’immagine. La mamma del bandito, Maria Consuelo, ha offerto del denaro per costruire un’università a Badiriguato, la località da dove proviene il gangster. Una delle tante iniziative attuate nella speranza che il governo messicano si mobiliti per far rientrare il padrino dalla prigione di Supermax: in cambio – dicono – il clan sarebbe pronto a investire nel sociale usando un po’ dei suoi fondi. Non gli mancano certo i liquidi.