Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
È uno dei capitoli incompleti della storia delle Brigate rosse; uno dei primi, scritto 47 anni fa: la sparatoria alla cascina Spiotta, in provincia di Alessandria, in cui furono uccisi l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso e Margherita «Mara» Cagol, che con il marito Renato Curcio aveva fondato le Br.
Il tenente Umberto Rocca perse un braccio e un occhio, il maresciallo Rosario Cattafi rimase ferito, l'appuntato Pietro Barberis ne uscì illeso mentre un secondo brigatista riuscì a scappare.
La sua identità è sempre rimasta sconosciuta, ma adesso una nuova indagine coordinata dalla Procura di Torino e dalla Procura nazionale antiterrorismo, con l'appoggio dei carabinieri del Ros, ipotizzano un nome: quello di un ex dirigente delle Br arrestato qualche anno dopo, condannato per altri omicidi e ferimenti firmati con la stella a cinque punte chiusa nel cerchio e oggi libero dopo aver scontato le pene accumulate.
L'impronta È una «pista» emersa da nuovi elementi, non ancora sufficienti ad attribuirgli con certezza la partecipazione a quel conflitto a fuoco.
C'è però una traccia: un'impronta digitale rilevata all'epoca nella cascina-covo che - riesaminata con le nuove tecniche a disposizione - è risultata compatibile con quella dell'ex br archiviata al momento della sua cattura. Per essere sicuri che appartenga a lui si tenterà l'esame del Dna, che con le nuove tecniche a disposizione del Ris di Parma si potrebbe estrarre dal vecchio reperto.
Tuttavia pure l'eventuale attribuzione dell'impronta nel covo sarebbe un indizio ma non una prova del coinvolgimento nella sparatoria.
margherita cagol col marito renato curcio
Nel frattempo gli inquirenti procedono con gli strumenti più tradizionali, e sono tornati a interrogare alcuni ex brigatisti; tra questi il proto-pentito Patrizio Peci, che però non sarebbe stato in grado di fornire elementi utili per via della «compartimentazione» all'epoca vigente dentro l'organizzazione; una regola secondo la quale i compagni venivano informati su operazioni e fatti a cui non avevano partecipato solo se serviva ai compiti assegnati loro.
Interrogatori Si sta dunque provando a riempire le parti mancanti di una pagina di storia del terrorismo italiano con gli strumenti dell'indagine penale, una via che inevitabilmente suscita reticenze tra ex militanti (soprattutto se non pentiti né dissociati) che invece sanno ciò che accadde quel giorno e finora hanno sempre taciuto.
Riaprire fascicoli giudiziari che possono portare a nuove incriminazioni (in questo caso per omicidio) per fatti così indietro nel tempo, non è considerata una strada percorribile dai protagonisti della lotta armata di allora. Il corso della giustizia però ha altre regole, e l'inchiesta è stata riaperta sulla base di un esposto presentato un anno fa dal figlio del carabiniere ucciso, Bruno D'Alfonso, anche lui un passato nell'Arma, assistito dall'avvocato Sergio Favretto.
In una ventina di pagine più allegati, D'Alfonso e il suo legale hanno ricostruito tutto quanto accertato nel 1975 dai carabinieri di Acqui Terme e Torino intervenuti dopo la sparatoria, confluito nel processo a carico di un brigatista arrestato il giorno prima, Massimo Maraschi, accusato di sequestro di persona.
Alla cascina Spiotta, infatti, Cagol e il suo complice tenevano in ostaggio il «re delle bollicine» Vallarino Gancia, rapito il 4 giugno per ottenere un riscatto che rimpinguasse le casse dell'organizzazione.
Lo stesso giorno Maraschi fu arrestato in seguito a un incidente stradale, e si dichiarò prigioniero politico. Nelle perlustrazioni dell'indomani, una pattuglia dei carabinieri giunse alla Spiotta, e notate le macchine parcheggiate bussò alla porta. I brigatisti risposero a colpi di pistola, mitraglietta e bombe a mano, uccidendo e ferendo i carabinieri e innescando la sparatoria in cui perse la vita la donna.
La relazione Il brigatista che sfuggì al fuoco dei carabinieri riuscì a scappare tra campi e boscaglia, e riagganciati i compagni scrisse una sorta di «relazione interna» trovata nel covo milanese di via Maderno in cui a gennaio '76 fu arrestato Renato Curcio. Lì c'è una versione dei fatti che accredita la versione di una «esecuzione» di Mara Cagol, sempre smentita dai carabinieri superstiti.
Uno dei quali, Rocca, ha anche detto di aver successivamente riconosciuto e identificato il fuggitivo, indicandone anche la provenienza da un marcato accento emiliano; ma senza la conferma dell'altro collega che l'aveva visto in faccia, l'appuntato Barberis morto nel 2003, la sua testimonianza non portò a nulla. Tra i reperti ora all'esame del Ris ci sono pure la macchina da scrivere trovata in via Maderno, con cui verosimilmente fu scritta la relazione del fuggitivo, e l'originale del documento, alla ricerca di altre tracce. Ma si tratta di accertamenti ancor più complicati rispetto a quelli sull'impronta digitale. «A noi interessa una piena ricostruzione dei fatti - spiega l'avvocato Favretto - che all'epoca non fu possibile perché le indagini furono inspiegabilmente chiuse in tutta fretta».
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