Fabrizio Roncone per Sette – Corriere della Sera - Estratti
prima della fine. gli ultimi giorni di enrico berlinguer
C' è questa concreta e struggente nostalgia per Enrico Berlinguer, morto esattamente 40 anni fa, morto sul lavoro, su un palco, durante un comizio, a Padova, in un'Italia completamente diversa da quella in cui torna adesso stretto nell'appassionato racconto, tra mito, rimpianto e tenerezza, che ne fanno libri e documentari, un'affollata mostra e il bellissimo film di Andrea Segre, Berlinguer- La grande ambizione (…) su cui, nel finale, si incastra una delle sequenze più forti dell'opera. Con Berlinguer che riunisce la famiglia in salotto, e dice: «... nel caso dovesse succedere anche a me, se fossi preso, la mia volontà di uomo libero è che non ci siano trattative con i rapitori».
berlinguer la grande ambizione
È un film di idee, pieno di politica, di bella e grande politica, attraversato da una persona speciale. «Quando si siede, piegandosi all'indietro, sembra davvero papà», dice la figlia Bianca, mentre le luci si accendono e ci sono quelli con gli occhi lucidi, certi prendono il fazzoletto, l'applauso della platea è lungo e si unisce agli altri appena riascoltati sullo schermo, con le piazze piene - e piene erano pure le urne - l'Unità che titola "Eccoci", "Ber-lin-guer/Ber-lin-guer!", tutti sotto a Botteghe Oscure, le bandiere rosse con la falce e il martello di un comunismo diverso e distante da quello sovietico, immaginato e voluto da un segretario che milioni di italiani seguirono senza indugi e che, ancora adesso, in molti cercano, studiano, ricordano.
giorgio napolitano con enrico berlinguer al mare all isola d elba el 1978
Perché? Lo chiedo ad Achille Occhetto, l'ultimo segretario del Pci, che il 12 novembre del 1989 decise di voltare pagina con la storica svolta della Bolognina, poi ratificata due anni dopo, durante il XX congresso, quando fu costituito il Pds, il Partito democratico della sinistra. «Questa nuova, evidente voglia di Berlinguer, a mio parere, è spiegabile con due ragioni.
La prima: credo si avverta il bisogno di tornare a quelli che Enrico chiamava i "pensieri lunghi", e cioè l'esigenza di intendere la politica come una visione di Paese, Europa e mondo, che tenga conto delle esigenze di riscatto dei lavoratori e della tutela dei più deboli. Enrico era davvero guidato da grandi idealità, sebbene fosse pure aperto alle revisione, ai piccoli passi del realismo politico e, anche, al dubbio...».
berlinguer la grande ambizione
L'altra ragione di questa riscoperta? «Penso alla grande commozione popolare per la sua improvvisa morte, su quel palco: un qualcosa che è rimasto, e ancora scuote».
La Bolognina, la fine del Pci: questo pensiero, oggi, che riflessioni le scatena? «Prendemmo una decisione giusta e, per certi aspetti, tardiva. Però non fu la svolta di Occhetto. Fu l'ultima grande decisione innovativa dei comunisti italiani, arrivata dopo un formidabile dibattito durato due anni. Del resto la caduta del Muro si rivelò uno spartiacque planetario. I parametri del Novecento sarebbero mutati per sempre. Non potemmo che tenerne conto».
Il cambio del nome, tra l'altro, come ha già raccontato sul Corriere a Francesco Verderami, Berlinguer lo aveva già affrontato proprio con lei, anni prima. «Eravamo in Sicilia, ad Agrigento, nel 1974, in piena campagna elettorale sul divorzio. Io guidavo la segreteria regionale del partito. Entrai nella sua stanza, stava passeggiando, mi guardò, disse: "Achille, e se cambiassimo nome al partito?". Io ebbi un attimo di stupore, poi gli risposi: "Sì, perché no?". Lui allora aggiunse:
"Del resto, le distanze che agli inizi del secolo separavano il partito di Lenin dal partito di Kautsky erano di gran lunga inferiori a quelle che oggi separano il Pci dal Pcus, eppure Lenin non esitò a cambiare nome al proprio partito per rimarcarne le differenze rispetto a quello kautskiano.... Molto probabilmente si trattava di un esercizio puramente intellettuale, che però testimoniava, ecco, un suo rovello interno».
Cosa resta, in questo Paese, di Berlinguer?
«Le rispondo descrivendole una foto vista di recente. Dove c'è Enrico, in un cantiere. Niente folla, nessun cameraman. Solo due operai edili che mangiano un panino. Un'immagine di un tempo che non c'è più. Perciò è inutile fare di Enrico un'icona dell'amarcord. Dovremmo invece far tesoro del suo coraggio di andare in mare aperto, con la sua visione alta dell'etica nei rapporti civili e politici.
Quella foto è esposta nella mostra che, su di lui, ha allestito Ugo Sposetti». Una mostra - I luoghie le parole- diventata evento: oltre 65 mila visitatori a Roma, al Mattatoio di Testaccio, e poi 35 mila a Bologna, in attesa che arrivi anche a Cagliari e a Sassari. Duemila metri quadrati con dentro tutto il minuzioso racconto della vita del segretario, dalle lettere, ai video, agli audio dei suoi discorsi, come quando grida la solidarietà del Pci al popolo cileno massacrato dal macellaio fascista Pinochet: e poi gli oggetti personali (messi a disposizione dai figli Bianca, Maria Stella, Marco e Laura), la scrivania di casa, e persino gli occhiali e l'orologio che aveva al polso quel giorno, a Padova.
Sposetti, ormai da anni, si dedica con la cura del filologo classico al recupero e alla conservazione d'ogni traccia di ciò che fu, e rappresentò, il Pci (anche in termini economici, con una ragnatela di 63 fondazioni che gestiscono le oltre duemila sedi del partito: il "mattone rosso"). «Chi erano i visitatori della mostra? All'inizio, coloro che quella stagione l'hanno vissuta. Poi, l'età è scesa. Molti giovani, soprattutto ragazze». E gli esponenti politici? «Beh... da Veltroni a D'Alema, dalla Schlein a Bersani...».
È venuta anche la premier Giorgia Meloni. «Mi chiamò sul cellulare. "Ugo, ti disturbo se passo?". Il giorno dopo era tra i padiglioni, rivelando un autentico senso di civiltà politica. Lo stesso che Giorgio Almirante dimostrò presentandosi a Botteghe Oscure, il giorno del funerale di Enrico».
Cosa piace di più ai visitatori? «Mi sembra forte il fascino dei 180 libri che noi giudichiamo fondamentali. Tra cui, ovviamente, l'imprescindibile L'oro di Mosca del compagno Gianni Cervetti". Il quale, ovviamente, compare nel film, interpretato da Lucio Patanè. Cervetti fu membro della direzione e della segreteria e, a lungo, ebbe la supervisione degli aiuti finanziari che arrivavano dal Cremlino: fisiologico che Berlinguer incaricasse proprio lui di reciderli, per rendere più autonomo il Pci. Emblematico il racconto che fa Marcello Sorgi, nel suo libro San Berlinguer (Chiarelettere). «... il 24 febbraio 1976, Berlinguer si era recato a Mosca al XXV congresso del Pcus, accompagnato da una classica delegazione di cui facevano parte Sergio Segre, Gianni Cervetti, Alfonsina Rinaldi e Tullio Vecchietti... Trattamento di rispetto, alloggio in una dacia sulla Collina di Lenin...
enrico berlinguer achille occhetto
La sera Berlinguer rimase con Cervetti - che avendo fatto l'università a Mosca, era quello che meglio conosceva la mentalità sovietica - a rivedere il discorso dell'indomani... "Ad un certo punto mi fa cenno di uscire fuori, in giardino. Capii che lo faceva perché temeva di essere intercettato", racconta Cervetti. "Ci coprimmo con cappotti e guanti. E appena usciti mi disse a mezza bocca: "Cosa pensi?". Risposi: "Penso che è arrivato il momento di allontanarsi nettamente da questi qui"».
Il giorno dopo, Berlinguer lesse il suo discorso davanti a Leonid Brevzev. Nella scena che il regista Segre ricostruisce a metà film, c'è un primo piano della giovane Rinaldi. «Alfonsina era lì in rappresentanza del partito emiliano e del movimento femminile. Del resto, era regola che ogni delegazione partisse da Botteghe Oscure con almeno una donna» ricorda Lalla Trupia, a lungo responsabile femminile del partito, e l'ultima a parlare prima del segretario sul palco di Padova, quella sera. «Però il Berlinguer "femminista" comincia a delinearsi dopo la campagna per il referendum sull'aborto. Da quel momento, diventa estremamente curioso e complice delle nostre istanze, che riteneva potessero essere motore di un rinnovamento politico del Paese...". Lalla Trupia era giovanissima. E anche Alfonsina Rinaldi. C'erano tanti giovani nel Pci di Berlinguer.
enrico berlinguer achille occhetto
Come Goffredo Bettini, che per la politica - sempre da sinistra - ancora sanguina a tempo pieno. «La nostra era una generazione che aveva lambito il '68. Eravamo curiosi e combattivi. Fondamentalmente allegri. Smaniosi di sconfiggere la Dc, anche un po' settari. E Berlinguer fu il simbolo di quella nostra speranza...».
Ha un ricordo personale del segretario?
«Ne ho due... Durante il movimento del '77 non sapevamo che pesci prendere. Ci fu un colloquio con lui. Ero abituato a dialogare con Chiaromonte, Bufalini, Ingrao... Ma Berlinguer mi metteva soggezione. Era gentilissimo, parlava calmo, aveva un sorriso meraviglioso, amava i silenzi. Cercai di spiegare la nostra linea: stare un po' dentro e un po' contro le manifestazioni, fin da subito violente. Lui ascoltò. Poi disse con un filo di dolore: "Compagni, capisco tutto... anche le vostre incertezze... ma mi hanno riferito che a Roma, durante le occupazioni, hanno distrutto i microscopi". Pausa. "I microscopi", ripetè. "E i microscopi servono solo agli studenti più poveri. Che non possono comprarseli privatamente". Non replicammo, aveva capito tutto».
enrico berlinguer achille occhetto
L'altro ricordo? «Risale al 1983, ero responsabile culturale del Pci a Roma. Organizzammo, sulla terrazza del Pincio, un'iniziativa a sostegno della pace. Fu su quel palco che Benigni, all'improvviso, prese in braccio Berlinguer. Io e Veltroni ci guardammo attoniti. Rivolsi un'occhiata a Tonino Tanò, che mi fece segno di sì con la testa...».
Lei sostiene ci siano stati addirittura diversi Berlinguer. «Fu tante cose insieme. Detesto la sua trasformazione in "santino", che calpesta la complessità dell'uomo. C'è un Berlinguer fino all'ultimo comunista italiano, combattente instancabile, un rivoluzionario che intendeva cambiare la società nel profondo. C'è, poi, il Berlinguer statista, rispettoso delle istituzioni.
Che, prima di tutto, vuol salvare il regime democratico. Non era un sognatore: piuttosto un idealista privo di retorica, mai demagogico, ma pragmatico, concreto. C'è, infine, il Berlinguer sobrio, amante della vita, da trascorrere anche in una dimensione privata, discreta. Che si emoziona solo di fronte alla prepotenza verso gli umili e gli indifesi». Se per gli articoli fosse prevista una sigla finale, a questo punto sentireste le prime note di Dolce Enrico , la canzone cantata da Antonello Venditti: "Chiudo gli occhi e penso a te/ dolce Enrico/ Nel mio cuore accanto a me/ Tu sei vivo..."
ENRICO BERLINGUER enrico berlinguer BIANCA BERLINGUER CON IL PADRE ENRICO enrico berlinguer fiat enrico berlinguer fiat
GIORGIO ALMIRANTE AI FUNERALI DI ENRICO BERLINGUER ENRICO BERLINGUER E GIORGIO NAPOLITANO enrico berlinguer eugenio scalfari ciriaco de mita enrico berlinguer in barca a stintino ENRICO BERLINGUER ALLA MANIFESTAZIONE DEL 1984 CONTRO I TAGLI ALLA SCALA MOBILE enrico berlinguer e eugenio scalfari gianni cervetti enrico berlinguer ENRICO BERLINGUER - MASSIMO DALEMA - ACHILLE OCCHETTO GIORGIO ALMIRANTE AI FUNERALI DI ENRICO BERLINGUER