1. L’ETERNITÀ DEL FORO IN QUELLE ROVINE IL FILM DELL’OCCIDENTE
Paolo Conti per il “Corriere della Sera”
Non c’è sindaco che resista alla tentazione, quando arriva in visita ufficiale in Campidoglio un Capo di Stato, un sovrano, un grande attore o un premio Nobel: portarli sul più bel balconcino del mondo, che si raggiunge dallo studio nel palazzo Senatorio, e mostrare l’aerea dei Fori che è lì a strapiombo, visibile in ogni dettaglio, come in una rivisitazione contemporanea di un’incisione di Piranesi o di Giuseppe Vasi.
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Sotto alla finestra l’Arco di Settimio Severo e il tempio di Vespasiano e Tito, lì la Via Sacra, a sinistra la Curia, il tempio di Romolo, le arcate della Basilica di Massenzio, la mole del Palatino sulla destra, sullo sfondo il Colosseo.
Potrebbe avvilirsi in una Disneyland in toga assecondando l’immaginario collettivo legato all’Antica Roma, a parco giochi di una fantasia globalizzata grazie alla Rete, ma per fortuna è un’area tutelata con cura e sapienza scientifica (nonostante il record di 6.6 milioni di turisti registrati nel 2015 col biglietto unico Colosseo-Palatino-Fori Imperiali) con la consapevolezza di doverla consegnare ai posteri.
L’area dei Fori è da sempre Roma, il suo simbolo urbano, lo sfondo indispensabile per collocare una Storia che nutre le radici dell’intero Occidente. E rappresenta una tappa obbligata per chiunque approdi alla Città Eterna. Magari per fermare sulla tela un momento magico.
Qualche flash attraverso i secoli, senza alcuna intenzione di completezza. Le esercitazioni cromatiche di Turner, con la sua poetica del sublime che si confronta col passato. A contrasto, il nitore adamantino settecentesco di Gaspar van Wittel o di Giovanni Paolo Pannini, col loro comune amore per il dettaglio e l’azzurro cobalto del cielo romano. I rossi sottolineati da Mafai, nel fuoco dei tramonti capitolini.
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Camille Corot, che (nonostante l’evidente passione) sfugge a ogni pericolo di inciampare nel bozzetto ma, anzi, collega le rovine all’Europa del suo tempo. Foro Romano significa anche tanto cinema, proprio quello che ha nutrito nel dopoguerra il turismo dei grandi numeri. «Vacanze romane» di William Wyler del 1953 è un autentico manifesto del Foro Romano. È sotto l’arco di Settimio Severo che il giornalista Joe, ovvero Gregory Peck, incontra per la prima volta la principessa Anna, Audrey Hepburn (non la riconosce, ignora che sia sotto l’effetto di un sedativo, e la rimprovera con un «gente come voi che non regge l’alcol non dovrebbe bere»).
I Fori splendono ovviamente ne «La Grande Bellezza» di Paolo Sorrentino del 2013, un film ormai diventato anche uno slogan internazionale. Al Foro Romano, Totò e Aldo Giuffrè si esercitano nella truffa del sesterzio in «Guardie e ladri» del 1951, capolavoro di Mario Monicelli e Steno. Un Foro ricostruito grazie alle nuove tecnologie, e smisuratamente ripensato, appare ne «Il Gladiatore» di Ridley Scott del 2000: ma è la riprova che, per qualsiasi ipotesi narrativa legata a Roma, è obbligatorio transitare per l’immortale Via Sacra. Città Eterna, lo sappiamo, non è un semplice slogan.
2. LA CHIESA RITROVATA
Lauretta Colonnelli per il “Corriere della Sera”
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Ci sono, nella chiesa di Santa Maria Antiqua, due grandi stupori che si rispecchiano l’uno nell’altro. Lo stupore dei visitatori che ammirano per la prima volta gli affreschi di oltre mille anni fa e quello delle figure affrescate che osservano i visitatori con il loro sguardo intenso.
Dalle pareti della basilica incastonata nelle rovine del Foro Romano si riaffaccia una folla di santi e vergini col bambino, di angeli e madri regine, di martiri cristiani e perfidi imperatori, di papi che scendevano nella basilica dalla loro residenza ai piani superiori lungo una rampa che oggi viene riaperta e dalla quale si può accedere al Palatino.
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Sono rimasti al buio per secoli: dall’847, quando furono sepolti dalla frana provocata da un terremoto, fino al 1900, quando l’archeologo Giacomo Boni li riportò alla luce. Santa Maria Antiqua è stata la Cappella Sistina del Medioevo, ma fino ad oggi solo alcune persone hanno potuto vederla, a parte gli studiosi.
Dopo oltre trent’anni di laboriosi restauri, gli affreschi sono finalmente accessibili al pubblico. Per l’inaugurazione è stata allestita anche una piccola mostra, con l’icona della Madonna col bambino salvata dopo il terremoto e oggi in Santa Maria Nova, le fotografie del Foro scattate da Rodolfo Fiorenza, le teste in pietra dei regnanti all’epoca in cui fu fondata la chiesa, tra le quali spicca il gruppo che alcuni riferiscono all’imperatrice bizantina Ariadne, altri alla regina dei Goti Amalasunta.
Importanti, perché l’intero ciclo pittorico della chiesa si svolge all’insegna dei due linguaggi, il gotico e il bizantino, che non si presentano sovrapposti per epoche, ma continuamente oscillanti tra l’una e l’altra identità, come ribadiscono Maria Andaloro, Giulia Bordi e Giuseppe Morganti, che da anni studiano il sito e ora curano la mostra.
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Per rendere comprensibile al grande pubblico questa iconografia i tre curatori hanno costruito un percorso multimediale che restituisce le parti decorative in opus sectile , sottolinea i diversi strati delle pitture, racconta la storia dei personaggi raffigurati, accompagna lo spettatore con una colonna sonora di brani musicali del Medioevo. Si attraversano le tre navate della basilica, ricavate nel VI secolo dentro i resti monumentali del quadriportico del palazzo di Domiziano.
Gli ambienti di fondo diventarono protesi, diaconico e presbiterio, come ancora oggi nelle chiese ortodosse. Scavando nel muro del presbiterio, fu aggiunta in seguito l’abside. Ed è qui, sul lato destro dell’abside, che si squaderna la cosiddetta «parete del palinsesto». Custodisce, secondo gli studiosi, il testimone più ricco, sfaccettato, stratificato dell’arte cristiana tra il VI e l’VIII secolo.
Una parete di pochi metri quadrati che oggi, dicono Andaloro e Bordi, «appare come un patchwork di immagini che colpiscono l’osservatore per l’incongruenza compositiva, iconografica e stilistica che le contraddistingue. Quelle immagini sono brani pittorici che appartengono a intonaci diversi, stesi in epoche diverse, costretti a convivere visivamente per le cadute accidentali di frammenti degli stessi intonaci».
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Così possiamo vedere simultaneamente quello che resta dei diversi strati: l’aspetto ieratico di Maria Regina, sfolgorante in una profusione di oro, gemme e perle, che convive con l’espressione plastica dell’Angelo Bello, frammento di un’Annunciazione successiva.
Tra le infinite storie che si dipanano nelle altre pareti della chiesa, notevoli quelle di Cosma e Damiano e di Ciro e Giovanni, i santi guaritori, replicati nella fascia bassa della cappella a destra del presbiterio, in modo che i malati sdraiati su un lettuccio potessero osservarli da vicino.
Si praticava infatti, davanti a queste immagini, il rito dell’ incubatio , di derivazione pagana. A Roma ne offre un esempio l’ospedale dell’Isola Tiberina, che già nel 289 a. C. accoglieva i malati per disporli intorno alla statua del dio Esculapio. Di notte, i malati dormienti ricevevano la visita di Esculapio che indicava a ciascuno la terapia da seguire, oppure guariva lui stesso le parti sofferenti.
Pare che funzionasse, a giudicare dagli «ex voto» ritrovati sull’Isola e dal fatto che un millennio più tardi fosse ancora applicata, con i santi cristiani al posto del dio greco. I medici di oggi non escludono le guarigioni: si tratterebbe di un effetto placebo.