LA TRANSIZIONE ECOLOGICA SARA' LACRIME E SANGUE: CON L'AUTO ELETTRICA, IN ITALIA RISCHIANO DI ESSERE SILURATI 60 MILA OPERAI - IL CONTO LO FA LA GABANELLI: "L'AUTOMOTIVE IMPIEGA 274 MILA PERSONE, MA PER UN MOTORE ELETTRICO SERVE IL 30% DI MANODOPERA IN MENO. SENZA UN PIANO DI RICONVERSIONE AL 2035 INTERE FILIERE POSSONO SPARIRE. NEL 2023 DOVE SI PRODUCE IL DIESEL 5 MILA ADDETTI POTREBBERO RIMANERE A CASA..."
Milena Gabanelli e Rita Querzè per il "Corriere della sera"
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Siamo entrati nella grande era della transizione ecologica e in molte fabbriche si stanno facendo gli scongiuri. In assenza di un piano di riconversione rischiano di essere spazzate via dal mercato. Prendiamo un’eccellenza italiana: la filiera dell’automotive.
Non ci sono solo Stellantis, Ferrari e Lamborghini, ma ben 2.200 imprese della componentistica, che forniscono tutti i più noti marchi dell’auto, dove lavorano 161 mila persone. Per fare un esempio: circa il 30% delle auto tedesche è fatto con parti prodotte in Italia.
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Se il Parlamento ratificherà la proposta della Commissione, in Europa i produttori di auto devono dire addio al motore endotermico (benzina, diesel) entro il 2035. E il 67% delle nostre esportazioni è diretto proprio ai Paesi dell’Unione.
Al di là dei tira e molla sui tempi, il motore elettrico si sta imponendo e per produrlo serve il 30% di manodopera in meno. Vuol dire che se in Italia restiamo fermi a guardare, entro i prossimi quattordici anni 60 mila persone in 500 aziende perderanno il posto di lavoro.
In 5000 stanno già rischiando il posto
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Negli stabilimenti dove producono diesel il problema c’è già adesso. Questo motore non è quasi mai utilizzato per le auto ibride e la sua quota di mercato in Europa è passata dal 54% al 26% negli ultimi tredici anni. Inoltre ci sono case automobilistiche che hanno deciso di bruciare i concorrenti sul tempo passando all’elettrico prima degli altri.
Tra queste c’è la tedesca Vitesco che sta investendo in Romania, Ungheria e Repubblica ceca. Dal 2023 interromperà la produzione di iniettori nello stabilimento di Pisa: in 750 rischiano il posto. Alla VM di Cento, in provincia di Ferrara, oggi Stellantis, in 900 producono il diesel V6: dal 2023 questo motore non ci sarà più, ma non si sa se e come sarà sostituito.
A Pratola Serra (Avellino), sempre Stellantis, si producono il diesel 1.600 e quello per i veicoli commerciali Ducato: i 1700 dipendenti hanno aggiunto alla produzione dei motori quella delle mascherine, ma sono comunque in cassa due settimane al mese. Alla Bosch di Bari, dove è stato inventato il diesel common rail, ci sono 1.400 posti a rischio.
Altri 600 posti in bilico alla Marelli, oggi del fondo Kkr, dove si produce componentistica per il motore endotermico. Infine la multinazionale giapponese Denso ha grandi progetti sull’elettrico con Mazda e Toyota.
Ma non sullo stabilimento di San Salvo, in provincia di Chieti, dove si continuano a produrre alternatori e motorini di avviamento. I dipendenti sono 1.000: in 200 andranno a casa entro l’anno, per gli altri 800 posti non ci sono certezze.
Chi sta voltando pagina
Paesi e case automobilistiche si dividono sulla velocità con cui affrontare il cambiamento. Le confindustrie di Italia, Germania e Francia fanno pressioni per avere tempi più lunghi. Intanto però il resto del mondo si muove.
Negli Usa il 5 agosto scorso Biden ha firmato un ordine esecutivo: il 50% delle nuove auto vendute dovranno essere emissioni ridotte (vetture elettriche e ibride plug-in) entro il 2030. La Cina non ha per ora fissato scadenze, ma negli ultimi dieci anni ha sovvenzionato l’industria delle auto elettriche con circa 100 miliardi di dollari e sono nate 300 imprese specializzate.
Al Cop26 sei case automobilistiche hanno firmato il documento che le impegna al 100% di immatricolazioni verdi dal 2040. Ci sono le statunitensi Ford e General Motors, la tedesca Daimler Mercedes-Benz, la cinese Byd, e la britannica Jaguar Land Rover.
Mentre la svedese Volvo passerà totalmente all’elettrico già dal 2030. Per quanto riguarda i Paesi, hanno firmato Canada, Cile, Danimarca, India, Polonia, Svezia, Turchia e Regno Unito.
Il processo di transizione sarà accelerato quando il gap di prezzo tra le auto elettriche e quelle a motore endotermico si ridurrà, per effetto delle economie di scala. Si stima che entro in prossimi tre anni avere e gestire un’auto elettrica sarà quindi meno costoso.
Gli Usa di Biden si preparano a sostenere la loro filiera: il Congresso sta varando incentivi fiscali per i cittadini che comprano auto elettriche prodotte sul suolo statunitense. L’Unione Europea invece non è in grado di gestire in modo coordinato queste politiche, perché ogni Paese va per conto suo.
Mise: un solo incontro
La Germania, dove l’industria dell’auto è la più forte d’Europa, negli ultimi dieci anni ha innovato a macchia di leopardo e ora i sindacati frenano: secondo l’agenzia di ricerca Npm, finanziata dal governo tedesco, entro il 2030 rischia di perdere 400 mila posti di lavoro.
Però i grandi marchi dell’industria hanno un punto di riferimento fisso e strutturato con i governi. Si chiama «Konzertierte Aktion Mobilität» (Azione concertata in materia di mobilità). Mentre a livello regionale il ministero dell’Economia organizza i «dialoghi sulla trasformazione nell’industria automobilistica».
È una piattaforma che riunisce a scadenze fisse aziende, decisori politici e rappresentanti dei territori, per decidere le strategie per il futuro. In Italia un tavolo sull’automotive è stato messo in piedi al ministero dello Sviluppo Economico. L’incontro per parlare di politica industriale è stato soltanto uno, nel mese di luglio.
Hanno partecipato 40 rappresentanti di associazioni, aziende e sindacati del settore, sono stati elencati i temi delle sfide, il tutto si è esaurito in una lunga serie di audizioni e poi arrivederci e grazie.
Quel che manca all’Italia
L’Italia potrà salvare il settore se saprà fare tre cose. La prima: attirare gli investimenti dei nuovi produttori di auto elettriche. La seconda: costruire delle giga-factory per produrre, rigenerare, riparare e riciclare batterie, senza dipendere totalmente dai cinesi.
Vuol dire mettere in conto una collaborazione pubblico-privato, perché costruire una giga-factory richiede qualche miliardo di euro di investimento. Al momento ci sono in campo Stellantis a Termoli, la svedese Italvolt a Torino, Fincantieri in provincia di Forsinone e Faam a Taverola, vicino a Caserta. Però siamo ancora alle intenzioni, i tempi della transizione sono stretti e un vero piano industriale non c’è.
batterie litio auto elettriche
La terza: predisporre strumenti, condivisi con il sindacato, per gestire il passaggio da un lavoro a un altro. Significa creare un fondo per la conversione del settore, con risorse che consentano la riduzione dell’orario di lavoro per dedicare tempo all’aggiornamento delle competenze.
Per fare tutto questo servono fondi. Ma, come ha detto Mario Draghi al Cop26, i soldi per la transizione green ci sono. Il Pnrr stanzia 740 milioni per la rete delle colonnine e circa 1 miliardo nella filiera delle batterie. Quello che manca è la capacità di coordinare gli sforzi a livello nazionale, per non rimanere indietro e disperdere risorse che domani diventeranno debito.
Il modello che funziona
Va avanti chi si arrangia da solo: la motor valley emiliana sta facendo sistema per attirare investimenti stranieri. Tutto il tessuto produttivo sta cambiando pelle grazie alla spinta di grandi marchi, come Ferrari e Lamborghini, da una parte e una politica regionale che cerca di finalizzare i fondi europei sulla riconversione dall’altra.
La joint venture sino-americana Silk Faw, inizierà dal prossimo anno a costruire qui la sua fabbrica di supercar elettriche. L’obiettivo è di terminare a gennaio 2024 e sono già partite le prime assunzioni. Le università emiliane e i grandi marchi dell’auto hanno creato il Muner, la Motorvehicle University dell’Emilia Romagna.
Anche gli imprenditori del territorio si muovono. A Soliera, in provincia di Modena, un gruppo di investitori di Reggio Emilia ha fondato Reinova, un’azienda innovativa che collauda e omologa le batterie. Facendo squadra il nostro Paese può recuperare terreno, restare sul mercato e salvare l’occupazione.
Cosa fa Stallantis?
CARLOS TAVARES JOHN ELKANN - STELLANTIS
Anche l’ex Fiat Stellantis dovrebbe essere in campo. Negli ultimi quindici anni ha ricevuto almeno 1,5 miliardi di contributi pubblici, ma i posti di lavoro li ha costantemente ridotti. Lo scorso anno gli abbiamo dato un prestito di 6 miliardi garantiti dallo Stato in cambio di investimenti per mantenere l’occupazione sul territorio. Qualche mese fa li ha restituiti.
Qualora intendesse liberarsi dai vincoli, ci si aspetta che lo Stato eserciti il suo potere negoziale affinché gli impegni vengano rispettati. E senza il cappello in mano.