
AL “BAZAR DEL MINIMAL” – IN MOSTRA ALLA TATE BRITAIN DI LONDRA I CALCHI SCULTOREI IN GESSO, RESINA E CEMENTO DI RACHEL WHITEREAD – RIELLO: "IL SUO MINIMALISMO RIGOROSO E CONCENTRATO IN QUESTA RETROSPETTIVA PURTROPPO VIENE UN PO’ SPUTTANATO: TROPPE OPERE IN MOSTRA MA QUESTO NON E' COLPA DELL’ARTISTA” – VIDEO
Antonio Riello per Dagospia
Rachel Whiteread, classe 1963, londinese doc, diplomata alla Slade School of Art, prima vincitrice di sesso femminile, nel 1993, del prestigioso Turner Prize. Tate Britain le dedica una personale curata da Ann Gallagher e Linsey Young e prodotta con la collaborazione di The National Gallery of Art di Washington (DC). (Ha comunque avuto una significativa esposizione nel 2007 anche in Italia, al Museo MADRE di Napoli).
Per i filosofi il concetto di vuoto e’ sempre stato un affascinate enigma, sul quale sono state spese infinite discussioni e pubblicati innumerevoli saggi. Si e’ sempre stati di fronte ad un concetto molto sfuggente e paradossalmente “ingombrante”.
E’ un po’ come con la cifra “zero”. Tutti abbiamo una qualche opinione in proposito, ma e’ molto difficile spiegare di cosa stiamo veramente parlando senza ricorerre a metafore piu’ o meno coerenti. E quando ci sono di mezzo le metafore di solito scendono in campo gli artisti, che provato a dare una sostanza visiva a quello che non si puo’ vedere e che e’ difficile raccontare a parole. A dire la verita’ di solito con piu’ succeso dei filosofi. Viene subito in mente, nell’ambito dell’Arte Povera, una bellissima foto di Mussat Sartor del 1969 dove si vede un Mario Merz carismatico e in piena forma che tiene sottobraccio un suo lavoro in cera (appena fatto): “Calco dello spazio (vuoto) tra due rami di albero”.
La cifra distintiva della Whiteread e’ un continuo, coerente, virtuoso ed ossessivo sforzo di dare appunto forma a questa entita’ invisibile ed incorporea. La sua tecnica e’ macchinosa e complessa in termini pratici e nel medesimo tempo concettualmente assai elementare: realizza dei calchi del vuoto. Riproduce insomma una sorta di “spazio negativo” contenuto all’interno degli oggetti e delle costruzioni. E’ come se fosse una scrittrice di fantascienza, ci racconta di un “mondo paralello” che abbiamo sempre accanto e di cui nessuno riesce ad accorgersi. Il tutto in molte varianti e dimensioni che vanno dalla architettura monumentale al piccolo oggetto domestico.
Nel giardino, appositamente realizzata per questa occasione, fa bella mostra di se’ dando il benvenuto ai visitatori, l’opera “Chicken Shed” (2017). Minimalista ed ironico, altro non e’ che lo spazio interno un pollaio, materializzato in cemento.
In una ampia sala, prima di accedere alla mostra vera e propria, c’e’ una serie di opere che vanno da Sarah Lucas ad Anthony Caro (passando per Robert Morris e Barry Flanagan) appartenenti alla collezione della Tate e selezionati dall’artista. Per farci capire i sui gusti in fatto di Arte. Trovata curatoriale piuttosto interessante e abbastanza inedita questa.
Il suo primo importante (ed epico) lavoro e’ stato “House” (1993/94). Consisteva nel calco in cemento dell’interno della casa vittoriana dove abitava con la sua famiglia nell’East End (Mile End) e che doveva esser demolita. Dopo pochi mesi comunque fu distrutta, non senza polemiche, purtroppo anche la sua opera, che era stata posta in uno spiazzo non lontano. Un ampia documentazione fotografica all’entrata della mostra illustra con dovizia questa avventura.
Accanto, nelle cosiddette Duveen Galleries, la piu’ celebre delle sue installazioni: “One Hundred Spaces” (1995). Consiste in cento calchi in resina traslucida dello spazio - normalmente inutile ed ignorato - che si trova sotto le sedie su cui ci sediamo. Un opera formalmente ineccepibile che puo’ adattarsi a spazi e dimensioni diverse (in questo caso abbiamo una griglia di cinque righe da venti sedie ciascuna). Basterebbe questa da sola per dare una idea della sua sofisticata creativita’. Whiteread riesce a trasformare la banalita’ del non-spazio quotidiano in una serie compatta e ritmata di variazioni sul tema.
Quando si va alle mostre d’arte bisogna imparare a leggere con attenzione le didascalie, spesso trascurate, perche’ hanno sempre qualcosa di interessante da raccontare. Qui ad esempio veniamo a sapere che il proprietario dell’opera in questione e’ Monsieur Pinault, il tycoon del lusso con “casetta” a Venezia.
La mostra vera e propria si sviluppa dentro ad una sala di imponenti dimensioni. Subito saltano all’occhio parecchi schizzi, disegni e maquette di progetti. Molto belli soprattutto quelli fatti per l’installazione sul plinto in Trafalgar Square, “Monument” (2001), e quelli per il monumento all’Olocausto che l’artista ha realizzato a Vienna, “Judenplatz Holocaust Memorial” (1995).
“Boxes” (2005). Calchi in gesso di scatoloni in cartone. Indimenticabili. Quante volte, comperando uno scatolone, ci hanno chiesto “da 10 da 20 o da 25 litri”? E noi non riusciamo mai ben a capire cosa questo vuol dire in termini pratici di volume. Qui (finalmente) ci diventa tutto chiaro. Tra l’altro non e’ solo un lavoro intelligente e spiazzante ma anche al limite del virtuosismo tecnico.
Proseguendo ci si imbatte in tanti calchi di porte e finestre. Assolutamente il piu’ forte e convincente e’ “Due Porte” (2016), fatto in una resina che sembra vetro. Meno interessanti quelli in gesso.
Grandioso e inquietante e’ poi “Untitled (Stairs)” (2001): due rampe di scale in gesso e vetroresina che portano dal-e-al nulla. Una presenza impegnativa, capace quasi di evocare certe atmosfere del Piranesi.
Anche l’installazione “Untitled floor” (2002) lascia il segno: il calco in alluminio di un grande pavimento, con tutte le possibili imperfezioni minuziosamente riprodotte. Siamo di fronte ad una specie di “super realta’” che la raffinata monocromia permette di enfatizzare e sottolineare come di solito non si riesce a fare.
Molto interessanti anche tre materassi in resina e gomma. Opere realizzate intorno al 1991. Forse gli oggetti piu’ personali. Spazio segreto ed intimo questa volta. Sicuramente con tante cose da raccontare. “Untitled (Air Bed II), “Untitled (Black Bed)”, Untitled (Amber Bed)”.
Adesso proviamo ad immaginare come possa essere strutturato lo spazio vuoto che si trova tra gli scaffali e i libri in una biblioteca…. Sforzo inutile. Ci ha gia’ pensato la Whiteread, e possiamo vedere il risultato (superbo) in gesso. “Untitled (Book Corridors)” (1997/98). Si puo’ girare intorno a questa sculturona per molto tempo senza affatto annoiarsi e anzi scoprendo continuamente nuovi dettagli.
Da segnalare infine anche alcune recentissime opere (2017) realizzate in cartapesta. “Roof (Beams I)” e “Roof (Beams II)” sono curiosi interspazi di tetti. La texture marezzata e inedita, sorprende e convince assai.
Il fatto e’ che ci sono probabilmente troppe opere in mostra e questo non certo per colpa dell’artista. Si percepisce una specie di orror vacui curatoriale che ha accumulato una enorme quantita’ di cose, alcune abbastanza simili tra loro ad essere sinceri, che finiscono per rischiare di dare al visitatore una visione ripetitiva, se non addirittura noiosa, di un lavoro che in realta’ ha molto carattere ed e’ molto ben articolato.
Una delle cifre della Whiteread e’ il suo minimalismo rigoroso e concentrato, in questa mostra purtroppo viene un po’ sputtanato: la sensazione in qualche punto, qui e la’, e’ quella di essere dentro ad un “Bazar-del-Minimal”. I curatori insomma potevano fare un lavoro migliore. Detto cio’, l’artista e’ davvero bravissima e la mostra per molti aspetti magnifica. Va comunque assolutamente vista.
Rachel Whiteread
Tate Britain
Millbank/Pimlico
Londra SW1P 4RG
Dal 12 Sett 2017 al 21 Gennaio 2018