lazio roma

1. DERBY VERO, ALTRO CHE BISCOTTI E COMPLOTTI, QUA SI GONFIANO COME ZAMPOGNE, SONO BOTTE E RABBIA. VENTI MINUTI FINALI, TRE LAMPI E MUSCOLI CARDIACI CHE SALTANO COME TAPPI E LA ROMA RITORNA AL CENTRO DELLA CHIESA, PIÙ CHE MAI AL CENTRO DEL VILLAGGIO 2. RUDI GARCIA METTE IN CAMPO UNA SQUADRA CHE È UNA MOZIONE DEGLI AFFETTI, DELLE FEDI E DELLE BANDIERE

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Giancarlo Dotto per Dagospia

 

Venti minuti finali, tre lampi e muscoli cardiaci che saltano come tappi di Cartizze tra Roma e Napoli (Ciccio Benitez suicidato e resurrezionato). Prima Iturbe, finalmente assistito da Lucifero e non dal Chaos, poi Djordievic messo a rete dall’immenso Klose e, infine, dal nulla, da chissà dove, la testa di Mapou, nuova, irresistibile icona di un cartoon negro che nasce oggi qui all’Olimpico e rimette la Roma al centro della chiesa, più che mai al centro del villaggio.

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Derby vero, altro che biscotti e complotti, qua si gonfiano come zampogne, sono botte e rabbia. Fosse per me il derby di Roma lo risolverei in sette secondi, il tempo di lanciare in aria una moneta da un euro e assegnare con il più trucido dei sorteggi il vincitore.

 

Partita schifosa per come ti svuota con una tonnellata di reflusso acido, prima, durante e dopo, una zavorra di emozioni malate, il meglio e il peggio di ognuno, coltelli inclusi. E subito, molto malinconico, quello striscione della Sud in guerra contro James Pallotta che li ha presi col cappello in mano e gli darà lo stadio più bello del mondo (cazzi suoi collaterali, se si farà ancora più ricco) e, in cambio, riceve solo insulti.

 

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Subito cinque minuti di Lazio. Altro che brividi piccininiani, sono strizzoni da terrore puro e i laziali vengono sotto come furie nelle mutande di un debosciato. Sembrano gli uccelli incazzati di Hitchcock. Fuoco di quasi paglia. La Lazio ha dieci minuti di benzina e la Roma è programmata a non lasciarci le penne in primis.

 

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Rudi Garcia, dopo essersi lasciato andare allo sferzante sarcasmo del capobranco in pericolo, mette in campo una squadra che è una mozione degli affetti, delle fedi e delle bandiere, un mucchio di bucanieri che sanno per chi e in nome di chi battersi. Hanno perso il bandolo del gioco ma sono una squadra. Festa totale e cinquanta milioni in cassa alla fine, con tanto di t-shirt a sfottere contro l’intrusione lotitesca nei calendari (“Rigiocamo anche domani…).

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Klose e compagni hanno la ruggine addosso della delusione Juventus e di una stagione largamente vissuta al di là delle attese. L’ottimo Pioli percepisce la sofferenza della creatura, prova ad alitarle addosso, ma non basta. Resta, eccome, tutto quanto di bello. Roma in Champions per il portone principale e Lazio che ora a Napoli dovrà buttare le ultime stille per salvare il terzo posto che vale i preliminari.

 

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Per il resto, ammesso che ci sia un resto, solita Juventus cannibale che non lascia nemmeno le briciole e l’ombra spiovente del perticone infinito Toni, nome da osteria e cuore da mitologia, che da capocannone la dice lunga su due concetti, di quanto è grande lui e di quanto è mediocre questo campionato.

 

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Il Milan continua a vincere quando è inutile farlo e, sognando le morbide mammelle di Ancelotti (esonerato a Madrid) si rifà con l’ennesima resurrezione di El Sharawy. L’Inter perde anche quando sarebbe inutile farlo. Milano a pezzi e senza Europa, calcio da ritrovare.  

 

 

 

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