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IN EXCELSIS LEO (BONUCCI) - “PER LA MALATTIA DI MIO FIGLIO HO PENSATO DI SMETTERE” - IL DIFENSORE DELLA JUVE RACCONTA L’ANGOSCIA VISSUTA PER IL SUO MATTEO: “ENTRO’ IN SALA OPERATORIA FACENDO IL VERSO DEL LEONE: ERA LUI A DARE CORAGGIO A NOI” - L’ALTRO MIO FIGLIO, LORENZO, CORRE PER CASA IMITANDO LA CRESTA DI “GALLO” BELOTTI" - VIDEO

 

Dario Cresto-Dina per la Repubblica

BONUCCI CON I FIGLIBONUCCI CON I FIGLI

 

Leonardo Bonucci è preceduto dalla fama di antipatico, invece si rivela un ragazzo di ventinove anni sorridente e gentile, diventato uomo improvvisamente e con una fugace sfumatura di tristezza nello sguardo. Tornerà in squadra a metà gennaio, sempreché, dice, Rugani gli restituisca il posto al centro della difesa juventina: «Daniele rappresenta il futuro, anche per la Nazionale».

 

Sono stato ancora una volta fortunato, aggiunge, per spingere ancora più in là il paradosso che crede di avere intuito nel primo grave infortunio muscolare patito in carriera, una lesione al bicipite femorale della coscia sinistra. Aveva bisogno di fermarsi. La verità è che nello spazio breve di sei mesi la scala delle importanze si è rovesciata. Il calcio non siede più sul gradino più alto. Bonucci ha compreso con la sofferenza che c’è tanta pace nel prendersi cura degli altri.

 

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Ma cominciamo dall’adesso. Da questo Natale con il pallone lontano, la Supercoppa vista in televisione che ha lasciato il sapore amaro di una doppia sconfitta. Davvero non è un’assenza lancinante?

«No, nessun rimpianto. Ho festeggiato il Natale a Viterbo, casa mia, con tutta la famiglia. Papà dipendente Telecom, mamma contabile in un’azienda di termoidraulica. Il Capodanno sarà a Sestriere con mia moglie Martina e i nostri figli. Lorenzo Filippo che compirà cinque anni a luglio e Matteo Marco, tre il prossimo maggio. Momenti semplici, con un regalo che ci ha fatto qualcuno più grande di noi».

 

Il regalo cui allude è la guarigione di Matteo, immagino bene?

«Sì, la fine della paura che è durata da luglio sino a pochi giorni fa. A Matteo ora ripetiamo spesso una sorta di mantra: sei tu il nostro campione, hai vinto la partita più difficile. Gli leggo libri di favole, le storie di Cars. È tornato a giocare con suo fratello, presto potranno anche ricominciare a fare la lotta. Finalmente sta bene fisicamente e psicologicamente».

 

Se la sente di ricordare quando è arrivata la paura?

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«Estate, vacanze a Formentera dopo i campionati europei in Francia. Tre settimane prima a Matteo era stata rimossa una piccola ernia inguinale. Una sciocchezza, eppure abbiamo la sensazione che Matteo sia diventato un bimbo diverso. All’inizio pensiamo che la ragione sia da ricercare in un residuo di anestesia da smaltire, ma poi una serie di suoi comportamenti ci preoccupano. Siamo spaventati. Torniamo immediatamente a Torino, decide mia moglie.

 

All’ospedale pediatrico Regina Margherita troviamo una dottoressa meravigliosa che non perde un minuto. Gli esami diagnostici rivelano una patologia acuta. Bisogna intervenire subito, ci dice il medico. Il giorno successivo Matteo entra in sala operatoria alle otto della mattina e ne esce alle quattro del pomeriggio».

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Quali pensieri hanno attraversato la sua mente durante quelle otto ore?

«Nessuno in particolare. Mentre superava le porte della chirurgia Matteo ci ha fatto il verso del leone, come se volesse infondere coraggio più a noi che a sé. Dopo ho raccolto il suo peluche, un orsetto bianco, mi sono seduto in un angolo della stanza e ho fatto una chiacchierata con Dio: sia fatta la tua volontà, gli ho detto, ma non dimenticare che è solo un bambino. Poi sono uscito dall’ospedale e ho trovato ad aspettarmi una trentina di persone, famigliari e amici.

 

Qualcuno aveva chiesto un permesso dal lavoro, altri avevano chiuso il negozio. Per loro, per i miei compagni di squadra, per i tifosi, non soltanto della Juventus, che ci sono stati vicini in questi mesi ho pianto in tv. È stata l’emozione di un grazie. Matteo è tornato a casa il dieci agosto, a tredici giorni dall’intervento. Un recupero record».

 

È stata la fine dell’incubo?

«Non ancora, è cominciata l’attesa dei progressivi miglioramenti, l’ansia di cogliere ogni piccolo passo in avanti, la speranza che il tempo necessario a dissipare i timori scorresse rapido. Abbiamo spiegato la situazione a Lorenzo, abbiamo parlato a lungo e pazientemente con Matteo per renderlo consapevole che era successo qualcosa di molto importante, ma che non doveva avere paura perché sarebbe tornato come prima. In quelle settimane sono stato sfiorato dall’idea di abbandonare il calcio, avevo completamente accantonato l’obbligo di pensare al mio lavoro. Proprio non ci riuscivo».

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Chi l’ha aiutata più di tutti?

«Martina, con la sua determinazione, un’energia che sfiora la testardaggine. Lei mi ha convinto a sposarla, nonostante il nostro amore non fosse stato un colpo di fulmine, lei mi ha dato stabilità, sempre lei mi ha tirato fuori dal pozzo dopo ogni caduta, come quando mi sono trovato, da innocente, sbattuto nell’inchiesta sul calcio scommesse. Martina mi ha insegnato a essere fiero di me stesso nel bene e nel male. E ho capito che nel dolore tutte le famiglie si assomigliano. I privilegi si azzerano nella sventura, se vuoi riemergere devi lottare».

 

Siete tornati a mettere le immagini di Matteo sui social. Non rischiate di contribuire a una sua eccessiva esposizione?

«Coltiviamo entrambi lo stesso pensiero, quello di rientrare nella normalità cercando di non andare mai sopra le righe. Abbiamo ripreso a vivere come prima della malattia di Matteo. Tutto qui».

 

Torniamo al calcio. Mi dica quali sono state le tre persone fondamentali per la sua crescita sportiva.

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«Carlo Perrone, che mi allenò alla Viterbese. Ero il centravanti e il capitano della squadra Berretti, avevo segnato quattro gol in sette partite, amavo essere decisivo, ma lui mi disse: Leo, devi fare il difensore centrale se ci tieni alla carriera. Cambiai ruolo di malumore, fu la svolta. Alberto Ferrarini, che è stato il mio mental coach: mi ha insegnato ad accettare i giudizi negativi senza più deprimermi e perdere la concentrazione. Antonio Conte, che mi ha trasformato sul piano tecnico e tattico, e ci ha trasformati tutti alla Juve, prendendo una squadra dal settimo posto per portarla a tre scudetti consecutivi».

 

Conte ha creato giocatori- macchine?

«Non propriamente, direi piuttosto che ha creato un gruppo di giocatori affamati».

 

Dica la verità, alla fine non lo sopportavate più. Vi aveva consumati?

«Si sarebbe potuto continuare. Lui ha deciso diversamente. Quando l’ho ritrovato in Nazionale gli ho detto, scherzando, che dieci giorni di allenamenti ai suoi ordini sono il tempo perfetto... ».

BUFFON BONUCCIBUFFON BONUCCI

 

Lei non parla volentieri di sé, appare scontroso se non indisponente. Perché?

«Sono fatto così, forse perché ho avuto una adolescenza solitaria. Indosso un’armatura. Sono una mente tanto pensante e una bocca poco parlante. Lo ammetto, la diffidenza è un mio limite, i miei veri amici sono pochissimi ».

 

Qual è la ragione della maglia 19?

«Un altro lascito di Ferrarini, appassionato di numerologia e simbolismi. Difficile da spiegare. Le dico soltanto che il numero 19 è presente nella data di nascita di mia moglie e dei miei figli e nel giorno del nostro matrimonio. Ed è il motivo per cui ho voluto firmare il rinnovo del contratto con la Juventus il 19 dicembre ».

MESSAGGI PER BONUCCIMESSAGGI PER BONUCCI

 

Sono tramontate definitivamente le sirene del Chelsea?

«Vorrei diventare una leggenda qui». ( Ride).

 

Nonostante suo figlio Lorenzo sia tifoso del Toro già a quattro anni?

«O gli proibisco di frequentare i suoi migliori amici dell’asilo o me lo tengo così. Ci corre per casa imitando la cresta di Gallo Belotti. Voleva farsi stampare sul retro della maglia granata il nome di Pogba...gli ho detto che no, questo proprio non me lo poteva fa’!».

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