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BEDDA MATRI! A MILANO UNA GRANDE MOSTRA CELEBRA LA MATERNITÀ E LA MAMMA: DA QUELLA POP DI CINDY SHERMAN ALL’IMBALSAMATA DI PSYCO – CURATA DA MASSIMILIANO GIONI, L’ESPOSIZIONE RACCOGLIE TRECENTO MODI DI ESSERE MADRE

Francesco Merlo per “la Repubblica”

 

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È madre la lingua, è madre la terra, è madre la città che è metropoli e non patropoli ed è madre la natura benigna che per tutti i Leopardi del mondo diventa matrigna, come la strega di Cenerentola. Ma che davvero di mamma ce n’è una sola lo si capisce bene al Palazzo Reale di Milano dove dal 26 agosto saranno in mostra tutte le mamme del Novecento, e sarà la più affascinante mostra dell’anno, “la Grande Madre” appunto, un milione di mamme che sono un milione di volte la stessa mamma.

 

E dunque nel Paese delle mamme, dei gatti mammoni, delle mammole, delle mammane e dei mammasantissima, la mostra di Milano esibisce le Madonne col bambino, anche quelle magnificamente parodiate da Cindy Sherman, l’altra faccia della Croce, della Santa “Madre” Chiesa, la natalità appunto che, sia pure “deformata” dall’arte contemporanea, prevale sul martirio.

 

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La sacra famiglia, nella versione i figli so’ piezz’e core , ha conquistato anche le neoavanguardie, il femminismo e il futurismo che pure aveva a modello quella Caterina Sforza che, sulle mura della Rocca di Forlì, sollevò la gonna e al nemico che minacciava di ucciderle i figli mostrò sfacciatamente il pube: «Fatelo, se volete: impiccateli pure davanti a me, qui ho quanto basta per farne degli altri». È la “matrice” che dà la forma a tutto, anche ai concetti perché la matrice è ideologica oltre che matematica. E se “materna” è la scuola al suo inizio, Alma Mater Studiorum è il nome dell’università più antica del mondo.

 

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Tra le madonne col bambino ci sarà anche la signora Freud, nel famoso ritratto del 1905 con il suo già vecchio Sigmud, perché il Novecento è il secolo della psicanalisi e dunque la mamma di Palazzo Reale è la dominatrice che ancora a novantadue anni obbligava il suo piccolo genio a dei pranzetti domenicali che gli provocavano terribili, ma psicosomatici e dunque istruttivi, mal di pancia.

 

Per Freud le donne erano «un continente nero», sfingi misteriose come nella litografia di Munch o negli incubi di Alfred Kubin che a Palazzo Reale ci ricordano che è “mammamia!” anche lo spavento che toglie il respiro, ed è madre la scena che dà il senso alle cose, come quel ragno arrampicato sull’origine del mondo di Courbet, o quel cavalluccio marino che accudisce con mascolina maternità alla gestazione.

 

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Dipendesse da me diffonderei per i duemila metri quadri della mostra lo Stabat Mater di Rossini, che non è la colonna sonora della Pietà di Michelangelo ma è, tra tutti i canti sacri alla madre, il più adatto alle folies dell’arte contemporanea: le mamme macchine, il dadaismo, la guerra, le mamme suffragette, la mamma di Andy Warhol, le mani giunte di Cattelan... La mamma dell’arte contemporanea è un crescendo appunto rossiniano, birichino, laico, irriverente e senza confini.

 

E senza bisogno delle nuove madri di Rineke Dijkstra ( 1994) basta da solo il bellissimo ritratto della madre di Boccioni (1911), che somiglia al già moderno

Madre migrante (1936) di Dorothea Lange per ricordarci quanto sia affascinante la Puella che diventa Mater, la bellezza che diventa fascino, la fragilità che diventa potere, e quanto sia istituzione femminile il matrimonio che infatti non è patrimonio.

 

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C’è anche una mamma con il bambino morto del 1903 (Käthe Kollwitz) che nella Milano del Manzoni non può non ricordarci la madre di Cecilia che durante la peste “portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio”. E meglio ci starebbe una delle tante madonne nere col bambino sbarcate a Lampedusa. Quelle, però, sono mamme che non hanno ancora trovato i loro artisti.

 

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Anche l’ebraismo, che è il più antico dei monoteismi, è la religione delle madri. «Dio è madre» disse per primo papa Luciani. Dopo di lui l’ha ripetuto Woityla e ora papa Francesco sembra addirittura immaginare un Dio-mamma postmoderno come le neoavanguardie che qui raccontano la confusione della sacra famiglia in resina e in silicone, copie senza più originali: «Dio è la mamma — dice il Papa — che canta la ninna nanna al bambino e prende la voce del bambino e si fa piccola come il bambino e parla con il tono del bambino al punto di fare il ridicolo se uno non capisse cosa c’è lì di grande».

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Ed è sorprendente notare che le mamme postmoderne con il pene in erezione (Lynda Benglis) e i bronzi e le gomme falliche di Louise Bourgeois somigliano alle immagini delle antichissime mamme di Olga Fröbe-Kapteyn che ispirarono Jung, e chissà che non sia vero che mater , provenendo dall’accadico, significhi sporgenza, prominenza e sia parente di venter .

 

Sicuramente è mamma la mammella che è la nutrizione, la fertilità, il cibo a cui è dedicato tutto l’Expo. Si chiama madre il lievito naturale del pane e della pasta. E l’Italia, che forse non è mai stata Patria, è sicuramente Matria, la Mutterland che Junger contrapponeva alla

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Vaterland , non l’inno, il tricolore e la nazione ma la regione, il paese e il campanile. Molto prima che Junger inventasse la Matria, la lingua italiana aveva risolto il problema con il geniale ossimoro Madrepatria, che è l’appartenza organica ed etnica, non la Nazionale, poco vissuta e poco pagata, ma la Juventus, il Milan, la Fiorentina, la squadra del cuore, il luogo d’origine e non il luogo d’arrivo. E infatti, a ricordarci che la ragion di mamma è stata la nostra ragion di Stato qui ci sono in mostra Anna Magnani, che fu la Mamma Roma di Pasolini, e Sofia Loren, che fu la Ciociara di De Sica; e, ovviamente, l’Anita Ekberg di Fellini.

 

Ma c’è anche lo scheletro di Psyco di Hitchcock, la mamma che persino da morta non molla il figlio e lo trasforma in assassino. Hitchcock fu mammone per tutta la vita al punto che chiese (senza ottenerlo) il seguente epitaffio sulla lapide: “Ecco, questo è quello che succede ai bambini cattivi”.

 

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Ebbene, forse con Pysico , per una volta, si vendicò della sua mamma, perché come diceva Simone de Beauvoir «non esistono ribelli e ribellioni che non comincino maltrattando la madre». Più modestamente gli Skiantos cantavano: «Sono un ribelle, mamma. Non insistere, non torno a casa questa sera». E Gaber: «Chissà nel socialismo, che mamme!».

 

Ecumenica, la mostra ha la sua forza e il suo limite nel non avere scelto. Il non picciol catalogo, centoquaranta artisti e trecento mamme, è come quello del don

Giovanni : “ Non si picca — se sia ricca, / se sia brutta, se sia bella / purché porti la gonnella”. C’è dunque troppo, come aprendo una matrioska. Ma c’è anche troppo poco per raccontare il secolo. Non c’è per esempio quella signora che nel ‘35, incontra il suo Soso: «Iosif, adesso che cosa sei diventato?». «Sono segretario del Comitato centrale, mamma. Ricordi il nostro zar?». «Come no». «Ecco, io sono una specie di zae». La madre si strinse nelle spalle: «Sarebbe stato meglio che tu fossi diventato prete».

 

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E non c’è la mamma di Winston Churchill che da giovane irritava tutte le sue amiche dicendo loro: «Dovresti andare da mia madre. Ti insegnerebbe come vestirti». E la prima volta che vide la sua futura, amatissima moglie: «Se non ci fosse mia madre, tu saresti la più bella donna d’Inghilterra». Insomma, non ci sono le mamme della storia del Novecento e non ci sono la poesia e neppure le canzoni: “Mamma, solo per te la mia canzone vola”. Ci sono le mamme di piazza de Majo ma non le mamme carnefici della mafia...

 

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La mostra è ecumenica perché è organizzata da Massimiliano Gioni, che a soli quarantuno anni è la nouvelle vague dei curatori d’arte italiani, senza mai polemiche né alla Sgarbi né alla Bonami, più mamma che papà degli artisti che sceglie, non patriarca creativo alla Bonito Oliva (padre della Transavarguardia) o alla Celant (padre dell’arte povera), non profeta che accende gli animi delle tifoserie alla Mourinho, ma selezionatore materno e dunque tecnico, alla Zoff.

 

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Oltre alla Fondazione Trussardi, che organizza questa mostra di Milano, Gioni, che è nato a Busto Arsizio, dirige il New Museum di New York, in Bowery street, una serie di scatole sovrapposte in modo irregolare di fronte alla pizzeria Forcella dove va a mangiare il sindaco De Blasio. La mamma di Gioni è un’insegnante in pensione. La moglie, al nono mese di gravidanza, diventerà mamma negli stessi giorni della mostra sulla mamma. E qui non può mancare l’esclamazione di ironica meraviglia: bedda matri!

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