“MIO PADRE PASCE LE PECORE, È ‘NO STRONZO”. URLA, PERNACCHIE, DARIO BELLEZZA CHE DAVA DEI FASCISTI AI PRESENTI E UNO SVALVOLATO CHE MOSTRAVA I GENITALI ALLA FOLLA - LA BOLGIA INFERNALE DEL FESTIVAL DEI POETI DI CASTELPORZIANO NEL 1979 DESCRITTA DA CARLO VERDONE NEL SUO NUOVO LIBRO VALE DA SOLA UN FILM – KEITH MOON DEGLI WHO E LA TV LANCIATA DALLA FINESTRA - L'INARRIVABILE PERFORMANCE DEL COATTO SUPERDOTATO DAVANTI A UN FLIPPER - VIDEO
Francesco Persili per Dagospia
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“Ostia. Onde di preservativi che scivolano sulla sabbia…”. Evtusenko se la tirava come se fosse il più grande poeta del mondo. Dario Bellezza dava dei fascisti ai presenti e uno svalvolato mostrava i genitali alla folla.
La bolgia infernale del festival dei Poeti di Castelporziano nel 1979 descritta da Carlo Verdone nel suo nuovo libro (“La carezza della memoria”, Bompiani Overlook) vale da sola un film.
Il mare lurido, le pernacchie, le urla. “Mio padre pasce le pecore, è ‘no stronzo”, “M’avete rubato la radio della maghina”, “Guardate che qua c’è un morto” (e di morti ce ne furono per overdose). Sulla spiaggia disperazione e provocazione, orde di coatti antichi, tossici e intellettuali spompi che danno ragione a Woody Allen (“la bocca è quell’organo sessuale che alcuni depravati usano per parlare”). Una colossale caciara culminata nell’assalto al minestrone sul palco.
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Quel finale da commedia all’italiana di una delle manifestazioni di culto dell’Estate romana organizzata da Renato Nicolini “segnò l’epilogo di ciò che di buono era nato nel Sessantotto”, scrive Verdone.
Davanti ai fuochi fatui di una Capitale pandemica e spettrale, l’attore-regista cattura la scintilla di una romanità perduta, forse sparita per sempre, che divampa nelle pagine dedicate al furore creativo di una città papalina e democristiana risvegliata da una scossa adrenalinica nel cuore di tenebra dei Settanta.
Riff di chitarra, assoli di batteria, teatri off, laboratori, cantine, club, la liberazione dalla paura degli anni di piombo attraverso la musica, l’arte e la cultura. Concerti memorabili. Gli Who che sul palco del Palazzo dello Sport sfasciano tutto. Il batterista Keith Moon che tira un televisore dalla finestra dell’hotel a un fan esagitato. E quello: “A stronzo, ti ho chiesto un saluto, mica te volevo sparà”.
Roma è stata sempre un grande teatro. Battutacce feroci e improvvisazione, iperrealismo da fraschetta e cialtroneria. Si recita a soggetto ovunque: al bar, per strada, nelle bische in cui la realtà supera sempre la fantasia. Inarrivabile la performance del coatto superdotato che trattava il flipper come una donna sottomessa (“E godi, li mortacci tua, io te sfonno, te sfonno”) prima di cacciarselo fuori e “di alzare il secchio con il suo arnese” tra le risate dei presenti. La luce di Roma cambia in fretta. E illumina di colori sempre nuovi quel set a cielo aperto popolato da galli cedroni, Manuel Fantoni, personaggioni in cerca d’autore.
Tra carezze e schiaffi della memoria, emerge l’anima profonda, popolare e cazzona, di questa città. E al tempo di Tinder anche “i mignottari” che compulsavano sul Messaggero gli annunci delle massaggiatrici hanno una loro poesia. Peccato solo che non ci sia più il festival, e il minestrone, a Castelporziano…
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