ME NE FREGIO! - UNA PROCESSIONE DI FANTASMI DAL PASSATO TRA STORIA E CULTURA POP: AL VIA IL FREGIO DI KENTRIDGE SUL LUNGOTEVERE - "IL MIO OMAGGIO A ROMA, DAI CESARI A PASOLINI, CHE RAPPRESENTA IL CADAVERE DEL RIMOSSO DI UNA NAZIONE"

Dario Pappalardo per “la Repubblica”

KENTRIDGE PROGETTO LUNGOTEVEREKENTRIDGE PROGETTO LUNGOTEVERE

 

Dopo mesi di stop, e a quattro anni dalla sua ideazione, il progetto di William Kentridge per il Lungotevere si farà. Domani ci sarà l’annuncio ufficiale al Macro di Roma: “Triumphs and Laments”, un fregio di 550 metri tra Ponte Mazzini e Ponte Sisto verrà inaugurato il 21 aprile 2016, al tramonto.

 

La Soprintendenza ha detto sì. Sui muraglioni che delimitano il fiume, compariranno Romolo e Remo,i Cesari; i lanzichenecchi e santa Teresa in estasi; Marcello Mastroianni, Anita Ekberg e il corpo di Pier Paolo Pasolini: una fantasmagoria di personaggi ed eventi, tra storia e cultura pop.

 

KENTRIDGE PROGETTO LUNGOTEVERE 1KENTRIDGE PROGETTO LUNGOTEVERE 1

Le figure appariranno dalla pulitura selettiva della patina del tempo sul travertino. La grande opera si realizza grazie all’associazione onlus Tevereterno, presieduta da Luca Zevi, e alla direzione artistica di Kristin Jones. Una composizione del musicista Philip Miller sarà la colonna sonora dell’evento per Roma, «la città europea più straordinaria in cui lavorare», la definisce Kentridge, tra i più grandi artisti viventi, nato a Johannesburg nel 1955.

 

Mr Kentridge, ottenere i permessi per realizzare l’opera non è stato facile. È dipeso dalla politica culturale italiana?

«Penso di sì. In alcuni contesti – e Roma è uno di quelli – diventa complicato e spinoso integrare l’arte contemporanea con gli spazi storici. Immagino che il motivo della disputa, dei permessi non accordati prima, sia stato questo.

 

Ma credo che oggi si debba percorrere proprio questa strada: l’arte contemporanea deve dialogare e trovare nuovi contesti per farlo. Nel mio caso, sul Lungotevere non rimuovo né danneggio nulla, elimino semplicemente lo sporco dell’inquinamento e degli agenti atmosferici».

 

Partiamo dal titolo. Perché “Triumphs and Laments”?

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«Il Trionfo era la cerimonia solenne che nell’antica Roma celebrava una grande vittoria. Ma ad ogni trionfo corrisponde sempre il Lamento di qualcun altro: degli schiavi portati come bottino di guerra, di donne, bambini, eroi, nemici presi prigionieri. Per ogni storia che finisce bene, ce n’è sempre un’altra drammatica. Essendo nato in Sudafrica, questo per me è un concetto molto chiaro: sintetizza l’ambiguità della storia umana. Ogni evento si può leggere secondo due visioni diverse e opposte. Ma nel fregio per Roma non ci sono solo immagini storiche».

 

Ci sono riferimenti ai monumenti e alle opere d’arte, alla Dolce Vita di Fellini… come ha scelto le immagini?

«Ho raccolto tante immagini, altrettante ne ho ricevute. Mi piaceva toccare tutti i tempi della storia: la classicità, il Medioevo, il Rinascimento, fino a oggi. Ho studiato i rilievi della Colonna Traiana e ne ho riprodotto anche i danni del tempo. Triumphs and Laments è una processione di fantasmi che affiorano dal passato».

 

C’è anche il corpo morto di Pier Paolo Pasolini, ucciso esattamente quarant’anni fa. Che ruolo ha Pasolini nella sua formazione?

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«Non lo conosco sul piano della poesia, apprezzo molto il suo cinema, il talento visivo. Mi affascina la forza dell’immagine del suo corpo senza vita per terra, la stessa che riproduco nel fregio per Roma. È l’incarnazione della vittima di tutti i tempi, è lo schiavo, è il Cristo morto. E al tempo stesso è il cadavere di tutto il rimosso di una nazione ».

 

Che rapporto c’è tra la sua opera per Roma e il lavoro di Banksy?

«Il processo che utilizzo è esattamente l’opposto di quello di Banksy. I suoi stencil si applicano direttamente sulla superficie. Triumphs and Laments sarà il risultato di una pulitura. In tre o quattro anni l’inquinamento coprirà di nuovo tutto. Le mie figure svaniranno fino a tornare nel buio. Per me è importante che non restino, fa parte del senso del mio progetto: una processione dall’oscurità alla luce con ritorno nell’oscurità. Il mondo è il luogo del provvisorio e della trasformazione».

 

C’è un ritorno dell’arte pubblica, anche in seguito all’esplosione della Street Art.

le opere di william  kentridge al maxxi  (5)le opere di william kentridge al maxxi (5)

«Apprezzo l’intelligenza di Banksy e l’interazione delle sue opere con l’architettura, con lo spazio urbano. Keith Haring ha incarnato il mio ideale di street artist. Mi piace un’arte pubblica che non sia vissuta come un’imposizione dall’alto, che non resti per sempre.

 

L’arte pubblica deve interagire con il pubblico che cambia. Come alcuni alberi che hanno bisogno di essere tagliati, così anche opere pensate per lo spazio cittadino dovrebbero alternarsi e adattarsi al tempo. Ho cercato di farlo in Sudafrica, come nella metropolitana di Napoli».

Pensa che l’arte debba parlare di politica?

williamKentridge williamKentridge

«Deve parlare di come ci rapportiamo al mondo. E la politica è parte del nostro modo di connetterci con il mondo».

 

Ha senso leggere “Il Capitale” di Marx alla Biennale di Venezia?

«Non so se ha senso. So che Marx ha interpretato bene come andava il mondo alla fine del XIX secolo. Non si può trascurare la sua lettura, non si può dimenticare. Ho apprezzato l’idea di Okwui Enwezor di far leggere Marx durante tutta la Biennale di Venezia».

Viviamo in un tempo di nuove migrazioni e divisioni. L’arte può essere utile a capire, a denunciare?

«L’arte deve tenere conto di quello che accade. Non è necessariamente politica, non contiene un programma in sé. Ma può mostrare le contraddizioni e le ambiguità del tempo che viviamo: la ex Iugoslavia, il Sudafrica, Lampedusa, la Germania che apre le porte ai profughi siriani. Bisogna tenerne conto. Siamo questo adesso».

le opere di william  kentridge al maxxi  (4)le opere di william kentridge al maxxi (4)

 

Qual è il compito dell’artista?

«Mettere insieme i frammenti del mondo dall’interno del suo studio».

Dai video alla pittura; dalla scultura agli arazzi, il disegno è il fondamento di tutta la sua opera. Chi non sa disegnare non è un vero artista?

«Amo i disegni degli artisti fiorentini del Rinascimento, il colore dei pittori veneziani. Ma per me il disegno è soprattutto un’attività fisica e insieme è come fare ordine, pensare a voce alta. Nei miei quaderni di schizzi sono raccolti anche tanti pensieri ».

 

Cosa pensa del mercato impazzito dell’arte contemporanea?

«È soltanto una parte di questo mondo: le aste, i record… poi ci sono gli artisti che fanno ricerca nei loro studi, il pubblico che cerca una risposta nei musei. E l’arte che può ancora essere un vivificante pugno nello stomaco, al di là di qualsiasi mercato ».

 

 

Nei musei ci sono anche i suoi colleghi Damien Hirst e Jeff Koons, i re del mercato.

«Davanti alla Farmacia di Hirst mi fermo e dico: “Che meraviglia, che idea!” Ma poi so anche che preferirei pagare milioni per un’opera di Mantegna».

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Il prossimo aprile sarà di nuovo a Roma per l’inaugurazione di “Triumphs and Laments”. C’è un posto, qualcosa a cui ama ritornare?

«Sicuramente il Pantheon... e poi quel sorbetto al pompelmo nella gelateria vicino».

 

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