CODICE DA CONSUMISMO: 40 ANNI DIETRO LE BARRE

Giuseppe Bottero per LaStampa.it

Quando Sharon Buchanan, cassiera di un piccolo supermercato di Troy, nell'Ohio, fa scorrere il pacchetto di gomme da masticare sotto lo scanner, non sa di essere la prima a compiere un gesto che verrà ripetuto almeno cinque miliardi di volte al giorno per i 40 anni successivi.

Le cicche Wrigley al gusto «juicy fruit», prezzo 61 centesimi, segnano l'esordio degli acquisti globali prima della globalizzazione. Merito - oppure colpa? - del codice a barre, lo schizzo grafico che ci insegue ventiquattro ore su ventiquattro. Il codice a barre - ideato dall'organizzazione mondiale Gs1 - è riuscito a trasformare nella lingua universale del business un esperanto digitale nato grazie alla collaborazione tra giganti del commercio.

E ora, 40 anni dopo, la nuova lingua globale rimbalza dall'emporio di provincia al magazzino virtuale di Amazon: «Se guardato come un minimo di prospettiva è il più significativo cambiamento che ha interessato la filiera del largo consumo», dice Luca Pellegrini, docente di marketing all'Università Iulm di Milano.

È il 3 aprile del 1973 quando le aziende leader del grande consumo mondiale si accordano per utilizzare un unico standard per l'identificazione dei prodotti: a oggi, è stato adottato da quasi due milioni di imprese. In Italia sbarca a cavallo tra il 1977 e 1978: le aziende associate, ora, superano le 35 mila.

«Il "barcode" - ragiona Miguel Lopera, presidente e Ceo di Gs1 - è un vantaggio per aziende e consumatori: permette di smaltire il traffico alle casse, ridurre gli errori, tagliare i tempi di attesa e monitorare stock e flussi dei punti vendita. Dietro le linee non c'è il prezzo, ma una sorta di carta di identità del prodotto: Paese d'origine, numero di lotto, numero seriale e data di scadenza».

Uno studio condotto in Francia dai ricercatori Vineet Garg, Charles Johnes e Christopher Sheedy ha rivelato che i codici a barre producono un risparmio annuale pari al 6,59 per cento del fatturato. Poco spazio per gli scivoloni: se con la digitazione manuale, statisticamente, scappa un errore ogni 300 battute, la probabilità di errore nella lettura a scanner è una su quattro miliardi.

Il segno affascina, basta un giro su YouTube per scoprire che c'è chi ipotizza improbabili messaggi subliminali, leggende metropolitane, riti satanici che si consumerebbero all'ombra delle righe nere su sfondo bianco uscite dal laboratorio di Norman Joseph Woodland e Bernard Silver. Ci gioca anche un amante dell'esoterismo come Matt Groening, l'ideatore dei cartoni animati della famiglia Simpson, che nella sigla fa scorrere davanti a un registratore di cassa la piccola di casa, Maggie. E la cifra è esattamente il costo medio annuo per il mantenimento di un neonato negli Stati Uniti.

Con la diffusione degli smartphone qualcuno ha provato ad aggiornare il codice a barre «tradizionale» con i codici Qr, che contengono indirizzi Internet, numeri di telefono e Sms. Per ora non sono decollati, anche se gli ultimi report - relativi al 2012 - parlano di cinque milioni di utenti unici, il triplo rispetto al 2011.

Negli uffici della Gs1, archiviati i festeggiamenti per i quarant'anni, si lavora per tratteggiare le linee del futuro. «Con lo sviluppo delle tecnologie digitali, dei social network e dei dispositivi mobili, i consumatori richiedono un aggiornamento in tempo reale sui prodotti e la possibilità di scansionare direttamente i codici a barre in modo da ottenere informazioni che vadano "oltre l'etichetta", come l'origine del prodotto, gli ingredienti e le condizioni del processo di produzione», spiegano dalla sede italiana.

«Il prossimo passo - dice il direttore generale Bruno Aceto - è espandersi nei settori sanitari, bancari, dei trasporti e della logistica».

 

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