CAPITANI (TROPPO) CORAGGIOSI – COSÌ CUCCIA FACEVA LA PREDICA A DE BENEDETTI: “ELLA È PROPRIO SICURO CHE IL CORAGGIO È SEMPRE UN BUON CONSIGLIERE, SPECIE QUANDO SI RISCHIANO, OLTRE AI PROPRI, I SOLDI DEGLI ALTRI?”
Raffaella Polato per “Il Corriere della Sera”
«Caro dottor Cuccia». «Caro ing. De Benedetti». E già dagli incipit è evidente: le formule di apertura sono di banale ritualità, le lettere inedite che Paolo Bricco cita nel suo libro «L’Olivetti dell’Ingegnere» (editore Il Mulino) no. Non per le firme in calce. Meno ancora per la sostanza.
Il Carlo De Benedetti che, il 28 novembre 1996, invia a Enrico Cuccia la relazione alla Camera sul disastroso stato del gruppo è un Carlo De Benedetti certo orgoglioso e forse — solo forse — sicuro di trovare almeno lì assoluzione: visto che, scrive, «molta disinformazione è stata pubblicata sulla stampa italiana ed estera, e molti attacchi immeritati sono stati fatti all’azienda». L’Enrico Cuccia che a Carlo De Benedetti risponde, già il 5 dicembre, di assolvere non ha invece alcuna intenzione. Qualche merito all’Ingegnere lo riconoscono, anche all’epoca, persino alcuni tra i molti «non amici». Il Gran Sacerdote laico di Mediobanca e della finanza italiana no, quanto meno non in quel momento. Il suo «caro Ing.» prelude a una lettera affilata.
Comincia facendo a pezzi la ricostruzione debenedettiana di meriti e colpe nel primo salvataggio Olivetti, dopo la morte di Adriano. Continua riportando al giusto ruolo di regista la figura di Bruno Visentini e a lui — «l’amico Visentini», che con il placet dello stesso Cuccia accompagnò poi ingresso e ascesa di De Benedetti a Ivrea — attribuisce un altro merito che l’Ingegnere rivendica per sé (la prima macchina elettronica al mondo: e questa volta è «Cdb» ad aver ragione). Conclude con quelle che il destinatario — al quale va riconosciuto di non aver nascosto nulla, dagli archivi cui ha dato pieno accesso a Bricco — deve aver vissuto come rasoiate al veleno. L’Olivetti sta saltando, e l’allora 89enne banchiere si chiede «se valeva la pena assumere taluni rischi in cui sono stati profusi, e bruciati, ingenti capitali. Ella è proprio sicuro che il coraggio è sempre un buon consigliere, specialmente quando si rischiano, oltre ai propri, i soldi degli altri?».
FRANCO RODOLFO E CARLO DE BENEDETTI
Frasi capaci di far esplodere l’Ingegnere. Lui, sempre molto outsider eppure sempre un po’ insider, rispetto a quel capitalismo di cui Cuccia tirava le fila. Lui, che da Mediobanca era stato aiutato, ma poi si era smarcato, ma dopo ancora lì era stato costretto a bussare per provare a salvare il salvabile (e questo è, in fondo, il controluce della lettera cucciana). Lui, l’imprenditore che si sentiva Industriale ma che tutti definivano finanziere: e che il Banchiere, tutto sommato, come tale liquidava.
CARLO DE BENEDETTI ANNA MARIA TARANTOLA
In fondo resisteva però sempre, tra i due, un rispetto antico. L’Ingegnere si sarà pure infuriato. Ma è uomo diretto e lì, se diluisce la rabbia, non chiude le comunicazioni. Anzi: «Con la solita franchezza e insieme deferenza», a sua volta si toglie qualche sassolino. L’informatica è finita, ma c’è Omnitel, no? E chi altri ci ha pensato, al mondo? E Olivetti, senza, da quanto sarebbe sparita? E le banche italiane, Mediobanca in primis, ci avevano forse creduto? Questa, però, è un’altra storia (che «L’Olivetti dell’Ingegnere» racconta). Quella con Cuccia si apre e si chiude con i ringraziamenti di De Benedetti. E con la «viva cordialità» — anche nelle frecciate — di entrambi.