ITALIA-CRAC - STANDARD & POOR’S, NEL SUO PICCOLO, HA RAGIONE: GENERALI SCONTA IL RISCHIO PAESE - TUTTA COLPA DI UN'ITALIA CHE E' NELL'EURO MENTRE I MERCATI SI ASPETTANO UN DEFAULT CON RITORNO ALLA LIRA

Marco Valerio Lo Prete per "Il Foglio"

L'Italia non può gestire le leve del cambio perché ha accettato che la politica monetaria sia centralizzata a Francoforte, ma allo stesso tempo dell'Italia si può ipotizzare il default come se il nostro paese non fosse minimamente garantito dall'appartenenza a un'Unione economica e monetaria.

In Italia non esiste un prestatore di ultima istanza (come negli Stati Uniti o nel Regno Unito) perché così vuole lo statuto della Banca centrale europea, ma contemporaneamente i flussi finanziari delle grandi banche private del paese possono essere ostacolati da altri stati membri per motivi cripto-nazionalistici. Insomma, anche alla luce del "caso Generali", il paradosso è che l'Italia oggi soffre contemporaneamente per gli svantaggi di una moneta comune che c'è (l'euro) e anche per i difetti di una valuta nazionale che ci potrebbe essere (la lira). Colpa di una governance economica dell'Eurozona ancora squilibrata, oltre che dei limiti del nostro modello di sviluppo.

Si prenda Generali, cioè la prima compagnia assicurativa del paese. Poco importa - come ha comunicato ieri da Londra l'amministratore delegato Mario Greco - che il gruppo di Trieste preveda di aumentare i dividendi per gli azionisti già prima del 2015, o che il Leone rivendichi di essere già uscito da otto patti di sindacato negli ultimi mesi (Gemina, Prelios, Ntv, Telco, Mediobanca, Agorà, Rcs e Pirelli) sfidando certe tradizioni del capitalismo di relazione. Secondo l'agenzia di rating Standard & Poor's, infatti, il giudizio "A-" di Generali è comunque sotto osservazione, a rischio di declassamento fino a "BBB" nei prossimi tre mesi.

La colpa del Leone? Quella di avere nel portafoglio quasi 60 miliardi di euro investiti in titoli di stato italiani, considerati rischiosi. Greco ha mostrato delle slide per documentare un'esposizione in calo verso il debito italiano (da 58,5 miliardi a fine 2012 a 55 a fine 2013), ha parlato di "errore clamoroso", di giudizio "irricevibile". Ma il problema, più ancora che Generali, riguarda l'Italia. Non è una novità che assicurazioni e banche siano appesantite dal "rischio paese"; non a caso il 26 luglio 2012, quando il presidente della Banca centrale europea fugò temporaneamente ogni timore pronunciando il primo "whatever it takes", il titolo di Generali schizzò all'insù di 6,35 punti a Piazza Affari. Il punto è che S&P's, adesso, dice di ipotizzare ufficialmente un default italiano, e in base a questo scenario valuterà la società di Trieste.

Mucchetti (Pd) e l'attacco al paese

Massimo Mucchetti, senatore del Pd, presidente della commissione Industria e già firma di punta del Corriere della Sera, osserva che la comunicazione di S&P's è filtrata "alla vigilia dell'Investor day di Generali, ma soprattutto in contemporanea con l'approvazione della Legge di stabilità, proprio mentre il governo annuncia un programma di privatizzazioni e di revisionedella spesa pubblica. E' una manovra gravissima contro la Repubblica italiana". Si tratta dunque di riformare "la Costituzione materiale dei mercati", dice Mucchetti. Come? "Non capisco perché una società come Generali debba pagare S&P's per sentirsi dire che è ‘morta'. Le buone società possono vivere senza rating, Campari per esempio colloca bond senza problemi. Auspico perciò che le compagnie assicurative italiane, e non solo quelle, rompano i rapporti con queste agenzie di rating", conclude il senatore. Pure nel caso di una riuscita rivolta anti rating, resterebbe in piedi il paradosso di fondo: l'Italia è nell'euro, ma continua a essere penalizzata perché i mercati mettono in conto un suo default e un ritorno alla lira. E' la replica continua di quanto già accaduto (in grande) nell'estate 2011, quando lo spread iniziò a spadroneggiare. Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d'Italia, sintetizza infatti così quella fase: "Gli investitori di tutto il mondo - scrive nel libro "Processo alla finanza" (Laterza) - iniziarono a pensare che, forse, ai popoli europei e ai loro governanti l'euro fosse venuto a noia". Se l'euro si fosse disgregato, quali sarebbero stati i nuovi rapporti di cambio tra le valute? Il calcolo, secondo Rossi, non poteva che basarsi sulla "storia valutaria europea del trentennio pre-euro": perciò gli investitori si misero a vendere attività finanziarie greche, spagnole e italiane per l'ipotetico "rapido deprezzamento" che avrebbe colpito le nuove valute.

Ecco spiegata quella parte di spread, cioè di differenziale di rendimento tra Btp italiano e Bund tedesco, che poco aveva a che fare con i fondamentali macroeconomici del paese. Fino alla vigilia della crisi, si era ritenuto che "la costruzione europea fosse così avanzata che nessun paese sarebbe stato lasciato scivolare verso un default". Tutto d'un tratto, invece, lo stato italiano ha iniziato a pagare il "rischio di convertibilità", cioè a corrispondere rendimenti elevati come se da un momento all'altro potesse tornare la lira, nonostante la moneta in corso nel paese rimanesse l'euro. Il settore bancario, infine, è quello più direttamente interessato dalla cosiddetta "frammentazione" dei mercati finanziari. Una rinazionalizzazione dei flussi di credito è evidente se si analizza l'andamento dei tassi d'interesse sui nuovi prestiti alle imprese.

Secondo l'ultimo "Rapporto banche" del Centro Europa Ricerche, "il differenziale tra Italia e paesi Core si è fortemente allargato negli ultimi due anni: dai 30 basis point (bp) del luglio 2011 si è passati ai 130 bp dello stesso mese del 2013". Per le famiglie non va meglio: "Se nella prima metà del 2011 erano tra quelle europee a pagare meno per un mutuo per l'acquisto di un'abitazione, nel 2013 sono quelle che invece pagano di più". Le operazioni espansive della Bce hanno evitato scenari anche peggiori, ma è un dato di fatto che imprese e famiglie italiane sono costrette a pagare più cari i prestiti anche per il semplice colore del proprio passaporto.

Questioni di nazionalità emergono pure nelle restrizioni ai movimenti di capitali all'interno dell'area euro. Di recente i vertici dell'italiana Unicredit, dopo una telefonata arrivata dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, si sono scusati per le dichiarazioni attribuite a un dirigente che aveva parlato di 7 miliardi di euro "intrappolati" nella divisione tedesca della banca (Hypovereinsbank). Al di là delle smentite, è certo che l'Ue a inizio anno abbia aperto un faro sui provvedimenti che ostacolano la libera circolazione dei capitali e quindi accentuano la frattura tra stati del nord e del sud. Il problema di paesi costretti a sopportare le conseguenze più dure della moneta comune assieme agli effetti più negativi di una deriva nazionalista c'è eccome. In attesa di scegliere, in un senso o nell'altro.

 

mario greco Group CEO Mario Greco Massimo Mucchetti Jens Weidmann SEDE HYPOVEREINSBANK HypoVereinsbank

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