SONO RICCO, MA IN ITALIA NON INVESTO: "NON MI SENTIREI SICURO A INVESTIRE SENZA POTER AVERE "LE MANI IN PASTA"" - FRANCESCO TRAPANI, DOPO 30 ANNI NEL LUSSO CON BULGARI, ORA CONTROLLA IL 5% DI TIFFANY - “PUNTO SULLA TECNOLOGIA” - IL RETROSCENA DELLA VENDITA DI BULGARI E IL MANCATO INGRESSO IN CLESSIDRA
Maria Silvia Sacchi per Corriere Economia – Corriere della Sera
Negli ultimi 12 mesi molte cose sono cambiate nella vita di Francesco Trapani. L' uscita da Clessidra, l' ingresso in Tiffany, l' alleanza con Tages, i nuovi investimenti nella ristorazione. Tutto questo dopo trent' anni nel lusso con Bulgari e poi con Lvmh.
Partiamo da Tiffany dove è entrato in febbraio, insieme a Jana Partners, diventandone uno degli azionisti più rilevanti. Che progetti ha per la società?
«Di Tiffany posso parlare solo come investitore. Credo che abbia un grande potenziale di sviluppo: è un' azienda che ha un brand notissimo in ogni Paese, che vende anche prodotti a prezzi accessibili ma che è sempre considerata tra i marchi più grandi e prestigiosi del mondo. Negli ultimi anni, però, si era un po' "addormentata". Lavorando su prodotto, negozio e comunicazione si può fare tanto di più».
Da ottobre arriva come amministratore delegato una persona che lei conosce bene, Alessandro Bogliolo.
«Sono stato molto coinvolto nella ricerca dell' ad e sono molto contento di essere riuscito a portare Bogliolo che conosco molto bene: ha lavorato per 16 anni in Bulgari e per 10 anni riportando direttamente a me. Ha tutte quelle qualità necessarie per fare bene».
Infatti qualcuno ha pensato che non fosse bene un legame troppo forte con uno degli azionisti.
«Le autorità americane sono molto severe su questi argomenti. Abbiamo fatto la selezione insieme a una società di cacciatori di teste e quello di Alessandro non era l' unico nome in corsa. È stato scelto perché tutti si sono convinti delle sue capacità e della sua indipendenza, lavorerà nell' interesse di tutti gli azionisti».
Lei ha il 5,1% di Tiffany insieme a Jana. Potrebbe salire?
FRANCESCO TRAPANI - Copyright Pizzi
«Sono consigliere di amministrazione e azionista, ognuno di noi può, in certi momenti dell' anno, comprare o vendere. Per me Tiffany è un investimento industriale, non finanziario. Ho comprato perché vedo un quinquennio di lavoro da fare e spero di poter portare un contributo. Tiffany è nelle mie corde e sono interessato a crescere, ma quando e a che prezzo non lo so».
Che fase sta attraversando il lusso? Ci sono marchi con risultati stellari, altri in difficoltà.
«Finché l' economia progredisce, e quindi ci sono persone le cui disponibilità finanziarie aumentano, i prodotti e i servizi di lusso continueranno a crescere: è un consumo connaturato al successo delle persone. Ma il mercato è divenuto molto complesso. Quando ho iniziato io si doveva avere successo in alcuni Paesi dell' Europa occidentale, negli Stati Uniti e in Giappone. Oggi, invece, se vuoi essere un attore globale devi avere una grande esposizione in Europa, in Medio Oriente, che è un' area complicata, in Asia, che lo è altrettanto, e poi nelle Americhe, non solo gli Usa. È un mercato grandissimo dove ci sono operatori enormi che hanno tanti soldi e una grande qualità del management. Un settore che è diventato meno adatto di prima all' improvvisazione, alla mancanza di processo o di strategia...»
C' è stato il rallentamento della Cina, poi rientrato. Poi gli attacchi terroristici...
«I cinesi comprano ancora tantissimo anche se si sono spostati dall' Europa, gli attacchi terroristici spaventano, ma le società che vanno male sono quelle che hanno fatto errori o di posizionamento del brand o per mancanza di creatività. Insomma, la geografia, la tecnologia, le grandi dimensioni del mercato stanno marginalizzando le aziende meno strutturate e meno creative».
L' Italia ha ancora la possibilità di avere un polo del lusso?
«Ritengo che sia poco realistico, a meno che non ci siano un paio di grandi aziende indipendenti, delle poche rimaste, che si fondano tra di loro. Io con Bulgari ci avevo provato, avevo parlato con molti in Italia, senza risultati. Il vero punto è che, se una di queste aziende viene messa in vendita, è impensabile che i grandi gruppi se la facciano scappare».
Lei e la sua famiglia Bulgari l' avete venduta, faceva già più di un miliardo di ricavi nel 2011. Non era sufficiente?
«Abbiamo venduto per questioni familiari, avevamo una struttura complicata. E perché avevamo riflettuto sul fatto che quando avevamo iniziato non c' era nessun grande gruppo mentre adesso ci sono colossi che hanno soldi, organizzazione, uomini bravi e informazioni. Batterli è molto dura. Aziende che vanno da 700 a 1,2 miliardi fanno fatica. Il mondo del lusso dal punto di vista corporate e del controllo finanziario non sarà in mano agli italiani. Bulgari resta italiana come produzioni e come team, anche se il Ceo non lo è. Ma l' indirizzo appartiene alla Francia non all' Italia».
Doveva acquistare la maggioranza di Clessidra dopo la scomparsa del suo fondatore Claudio Sposito. Invece Clessidra è stata rilevata da Carlo Pesenti. Cosa non ha funzionato?
«Avevo deciso di diventare socio di Claudio per fare un' avventura insieme, eravamo amici da tanti anni Eravamo partiti dal presupposto che Clessidra mi avrebbe assorbito molto, ma mi avrebbe anche lasciato il tempo per seguire i miei affari, stavo trasferendomi a Londra e avevo dei progetti nuovi. Purtroppo, però, Claudio si è ammalato. Un giorno mi ha chiamato e mi ha detto che era sicuro di riuscire a sconfiggere la malattia, ma che non avrebbe potuto più occuparsi di Clessidra: "L' unico modo di continuare quello che ho creato e tenerla indipendente è che tu rilevi la mia partecipazione". Non era il mio obiettivo quando sono entrato, ma lui me lo chiedeva e io l' avrei fatto. Abbiamo iniziato a discutere le condizioni, in una situazione naturalmente difficile, e quando è morto abbiamo ripreso le trattative con sua moglie. Bisognava fare presto perché Clessidra era in una situazione di fundraising (raccolta di capitali, ndr ) per un terzo fondo. Abbiamo raggiunto un accordo preliminare, ho parlato con gli investitori spiegando che avrei comprato la maggioranza assoluta, bisogna solo firmare il contratto. Invece, la signora Sposito ha cambiato idea e ha chiesto più soldi, la situazione era diventata complessa, i suoi consulenti erano cambiati e stava passando troppo tempo, gli investitori erano preoccupati, ho detto "non compro più". Tutti sapevamo che poi avrebbe ceduto ad altri».
Rimpianti?
«Nessuno. Ero entrato perché mi faceva piacere lavorare con Claudio. Ma Clessidra non era la mia priorità, era troppo italiana per quello che erano i miei obiettivi, mentre quasi tutto il mio patrimonio è investito all' estero».
Qual è la sua idea di investimento?
«Ho un orizzonte internazionale. Pur essendo di famiglia italiana, e avendo gestito per tanti anni un' azienda di Roma come Bulgari, mi sono occupato di un business come il lusso che è esposto al mercato estero. Da giovane ho lavorato in Svizzera, più recentemente in Francia e negli Stati Uniti. E, poi, sono sposato con una francese e questo dà alla famiglia una nota diversa. Oggi vivo a Londra, una città che ha una grande apertura, nonostante Brexit».
Oltre a Tiffany, ha investito in Tages e nella ristorazione. Come è ripartito il suo patrimonio?
«La gran parte sul mercato monetario, poi su private equity e real estate. Ho investito parecchio anche sulle società tecnologiche, da Amazon a Google a Facebook, è un settore che mi interessa molto e per il quale mi faccio supportare da un consulente indiano espertissimo».
Che peso ha l' Italia nei suoi investimenti?
«Molto piccolo, non più del 5%».
Perché?
«I grandi soldi vanno sulle società quotate e l' Italia non è ai primi posti. Prima si guarda agli Stati Uniti, poi al Regno Unito, alla Germania, alla Francia, in parte all' Asia, anche se è più difficile, e in parte alla Svizzera. Investo in tecnologia in maniera importante, quindi negli Stati Uniti. Poi nel lusso, ma penso ai grandi gruppi come Tiffany; in Italia non mi sentirei sicuro a investire senza poter avere "le mani in pasta". L' Italia viene fuori, invece, quando si parla di piccole aziende innovative. Per esempio, ho rilevato il 59% di Eurofiere, fondata da un ragazzo bravissimo, così come sono bravissimi i fondatori di Foodation. Ma stiamo parlando di scale molto più piccole. Diciamo che in Italia sono un investitore attivo, mentre negli altri casi sono un investitore puro, con l' eccezione di Tiffany perché è una società di cui conosco in dettaglio punti di forza e punti di debolezza essendo stata per anni un mio competitor».
Non le pesa non essere più in prima linea?
«Mi sono arrivate anche richieste di fare il Ceo, ma non è più il mio lavoro. Sono molto interessato, invece, a essere di supporto per il management, come faccio da Tiffany, da Tages o da Foodation. Ho compiuto 60 anni a marzo, quello del Ceo è un lavoro molto duro, non a caso nelle aziende americane quando hai 62-63 anni non sei più credibile. Una persona che vuole iniziare una nuova avventura a 60 anni è meglio che faccia il presidente o un lavoro di supporto».