1- A UN CERTO PUNTO È SQUILLATO PURE UN TELEFONINO. PERFETTO COMPLEMENTO PER UNA SERATA AL TEATRO DELL’OPERA CHE UN INTELLETTUALE, FINITO NEL CARNEVALIZIO PUBBLICO DE’ NOANTRI, HA LIQUIDATO COSì: “UNO ZAMPILLO DI PIPÌ NEL DESERTO” 2- IL GRAN SCUOTITORE DI CIOCCHE DI CAPELLI RICCARDO MUTI DEVE RINGRAZIARE LA DEBOLEZZA DI ALE-DANNO CHE HA SGANCIATO QUASI TRE-QUARTI DEL BUDGET ANNUALE DEL TEATRO DE PER ALLESTIRE IL ZUM-PA-PÀ BANDISTICO DI “ATTILA” DI GIUSEPPE VERDI 3- GRAN FINALE CON UNA CAFONALISSIMA CENA NEL FOYER (CON I SOLDI DI CHI?) CHE AVRÀ FATTO LA FELICITÀ DELLA CONSORTE DI MUTI CHE COMANDA A BACCHETTA TUTTI 4- PRESENTE AL GRAN COMPLETO LA SCATENATISSIMA CLAQUE NAPOLETANA IN GLORIA DI MUTI

Foto di Mario Pizzi da Zagarolo


1- DAGOREPORT
A un certo punto è squillato pure un telefonino. Perfetto complemento per una serata che più cafonal non si può. Intanto, il gran maestro Riccardo Muti deve ringraziare la debolezza di Ale-danno che ha sganciato quasi tre-quarti del budget annuale del Teatro dell'Opera per allestire il zum-pa-pà bandistico di "Attila" di Giuseppe Verdi.

Un'opera che poteva andare bene per i melomani e gli esperti del bel canto; non certo per la platea infernale del generone romano che è più ignorante di un gregge di capre - Muti in passato ci aveva provato con altri teatri, vedi il San Carlo di Napoli, senza riuscirci.

"Uno zampillo di pipì nel deserto" è stato il commento più "buono" di un noto intellettuale finito nel carnevalizio pubblico de' noantri. Infatti la rappresentazione non ha avuto nessuna eco nazionale nè tantomeno internazionale (non siamo alla Scala).

Gran finale con una cena nel foyer del Teatro (con i soldi di chi?) che avrà fatto la felicità della consorte di Muti che comanda a bacchetta tutti: moltissimi collaboratori sono stati "emarginati" con l'arrivo di Sua Altezza Riccardo, gran scuotitore di capelli.

Ps - Presente al gran completo la scatenatissima claque napoletana, sempre al solito posto, in fondo alla platea.


2- BARBARI E NO, LA LUCE DI MUTI SUL DRAMMA DI ATTILA
Guido Barbieri per "la Repubblica - Roma"

Una volta di marmo, immaginaria. Sulla sinistra un cavallo bianco, bardato d'oro. In sella papa Leone Magno, lo sguardo calmo, la mano inanellata tesa in avanti, quasi ad arrestare un pericolo incombente. Sulla destra, invece, un cavallo nero, l'occhio di fuoco, una zampa in aria. Lo monta, a pelo, il barbaro Attila. I suoi occhi sono colmi di terrore: guardano verso il cielo, dove i santi Pietro e Paolo brandiscono le loro spade.

Non è l'immagine chiave dell'attesissimo Attila di Giuseppe Verdi, firmato "a quattro mani" da Riccardo Muti e Pier Luigi Pizzi, che il Teatro dell'Opera di Roma ha messo in scena venerdì scorso. Si tratta invece di un altro Attila, quello realizzato all'alba del Cinquecento, per la Sala Eliodoro dei Musei Vaticani, da Raffaello Sanzio. E' proprio questo il dipinto al quale Verdi, durante la genesi del dramma, guarda con un interesse del tutto insolito. Tanto che, a poco più di un mese dalla prima veneziana del 1846, chiede ad un amico di ricopiare "a penna" il figurino del "re degli Unni".

Se ne può comprendere il perché: per il giovane Verdi, Raffaello rappresenta il modello storico della "classicità", di una visione della Storia, cioè, in cui il contrasto primitivo tra civiltà e barbarie si trasforma nella dialettica assai più moderna tra ragione e passione e dove i "barbari" possono nascondere, sotto l'elmo bicornuto, una fiamma di civiltà.

Di fronte a questo modello, etico e insieme drammaturgico, i due "architetti" del nuovo Attila romano si muovono seguendo strade complementari, ma distinte. La concertazione di Muti, che in questa occasione ha forse realizzato la "visione" più compiuta di un'opera amatissima, è una sorta di variazione continua sul tema cruciale del "contrasto". Basta seguire, per capirlo, il trattamento mobilissimo dei tempi e delle dinamiche all'interno di quella che Abramo Basevi chiamava la "solita forma": i recitativi sempre guidati dal ritmo della parola, i "cantabili" (nelle arie e nei duetti) accompagnati dal respiro naturale del legato, i "tempi di mezzo" rapinosi e svelti, le cabalette infiammate dal suono aspro e parlante dell'orchestra. Ed è proprio attraverso la figura del "contrasto" che i caratteri della drammaturgia verdiana acquistano, come nel dipinto di Raffaello, luce, energia e complessità.

Un disegno lucido, quello di Muti, nel quale si inseriscono, con mezzi vocali assai diversi, i solisti di canto: Tatiana Serjan (Odabella) e Ildar Abdrazakov (Attila) seguendo come sismografi sensibili le infinite varianti di ritmo, tempo e dinamica, Nicola Alaimo (Ezio) e Giuseppe Gipali (Foresto) mostrando invece una minore compiutezza stilistica.

In questo suo nuovo Attila, Pizzi, per parte sua, tende a risolvere la ricerca del contrasto nella esasperazione della simmetria e dell'astrattezza: l'azione, punteggiata da cataste di libri bruciati, si svolge costantemente al di sotto di una volta a riquadri sbalzati che ricorda la Basilica di Massenzio, la tinta di scene e costumi (escluso il rosso tenue di Attila e Odabella) varia dal nero pece al grigio fumo e soltanto un muro nero si alza e si abbassa per disegnare spazi più raccolti. Poche la facce note in platea e applausi riconoscenti per tutti.

 

TEATRO DELL OPERA DI ROMA TEATRO DELL OPERA DI ROMA SILVANA PAMPANINI STEFANO E DANIELA TRALDIU SILVANA PAMPANINI E IL VIGILE ATTORE PIERLUIGI MARCHIONNE SILVANA AUGERO SARA IANNONE SARA E MARIA TERESA SABRINA FLORIO E BRUNETTO TINI SANDRA VERUSIO

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