CAFONALINO - VOGLIO UNA VITA COME MIRIAM MAFAI. ALTRO CHE BERSANI-VENDOLA-RENZI - A POCHI MINUTI DAL CONFRONTO SU SKY, VELTRONI, EZIO MAURO, PIGI BATTISTA E LUCIA ANNUNZIATA (IN RITARDO) PARLANO DELLA “DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA” DI UNA DONNA CHE AVEVA L’X-FACTOR RIFORMISTA - ROMITI COME GUEVARA: “NÉ RENZI, NÉ GRILLO, BISOGNA RICOSTRUIRE IL PAESE COME NEL SECONDO DOPOGUERRA. È TEMPO DI UNA RIVOLUZIONE PACIFICA”…

Foto di Luciano Di Bacco per Dagospia
Francesco Persili per Dagospia

Voglio una vita come Miriam Mafai. Altro che Steve Mcqueen, i papi, i cardinali e le blogger tunisine da pantheon à la carte di Bersani-Vendola-Renzi. A pochi minuti dal confronto televisivo tra i candidati alle primarie del centrosinistra, al teatro Quirinetta si parla della «direzione ostinata e contraria» di una donna che aveva l'X-Factor riformista.

Dalla parte degli indifesi, chè questo significa essere di sinistra, una intellettuale libera e anticonformista nata «sotto il segno felice del disordine». L'incipit di una vita ma anche l'immagine che offre di Miriam Mafai la sala nel giorno della presentazione della sua autobiografia interrotta, curata dalla figlia Sara Scalia, «Una vita quasi due».

Ci sono Ezio Mauro e Veltroni, in piedi, che parlano in un angolo, Romiti risponde al cellulare in prima fila, seduto poco distante da Mario Pirani mentre Pigi Battista ha l'aria di chi si è stancato di aspettare. Tutti attendono Lucia Annunziata, la Madre Badessa dell'Huffington Post Italia che, una volta sul palco, si balocca nel ricordare la ragazza innamorata che scriveva lettere d'amore (a Umberto Scalia, «il contadino che cacciò il principe Torlonia dal Fucino«), la madre che si avvicinava alle compagne più giovani per un consiglio («Il fidanzato ti tratta bene? Mi raccomando, non fare pasticci»), la militante del Pci («entrare nel Partito Comunista era a quel tempo come prendere i voti, una scelta di vita quasi conventuale»).

Ed è subito amarcord, ritorno alla casa del padre, un viaggio al centro della comune appartenenza. L'ex presidente della Rai che nel pamphlet 1977 ha scattato l'ultima foto di famiglia di una sinistra divisa tra compromesso e radicalismo, etica berlingueriana e mistica del sampietrino, radio libere e Inti Illimani, Linus e Lenin, riflette sul «senso di discriminazione» avvertito nel suo mestiere di giornalista «dall'amica Miriam» e arriva a chiedersi come sarebbero andate le cose se fosse riuscita a diventare direttore di qualche quotidiano in cui ha lavorato.

«Oppure segretario del Pci, sarebbe andata meglio anche lì», ironizza Pigi Battista che ne rivendica il tratto sregolato «da figlia del mondo dell'arte» e il pensiero aperto mai intruppato nella rigidità ideologica. Viveva in una bellissima casa e quando il suo compagno, Giancarlo Pajetta, contrario anche alla tv a colori, sosteneva che in Unione Sovietica dentro una dimora del genere ci sarebbero andate a vivere tre famiglie, lei spalancava il sorriso: «Ecco perché non voglio il socialismo che vuoi tu».

Una risposta che spiega meglio di ogni relazione congressuale, il 1956, «sliding door della sinistra italiana e del nostro Paese» (copyright Walter Veltroni) e la differenza tra riformisti e massimalisti. Ma non solo, racconta la sua personalità forte e autonoma da figlia obbediente del Pci e madre con le mani nei capelli per una sinistra che faticava a riconoscere, come sottolinea Ezio Mauro.

Al netto del birignao politico-letterario sulla doppia educazione, «familiare e di quel pedagogo terribile che fu il Pci», e l'immancabile mantra gobettiano su «una certa idea dell'Italia» che si continua a portare molto a Largo Fochetti, il direttore di Repubblica coglie la capacità di vivere ad occhi aperti di Miriam nel suo mestiere («Il giornalismo è per lei proseguimento della politica con altri mezzi: Non essere di parte ma prendere parte») e nella sua idea rivoluzionaria di riformismo.

«Vorrei che scuole e ospedali funzionassero, vorrei che tutti pagassero le tasse e che la Dc andasse all'opposizione». Certo, «tutti lo speravamo, non sapendo quello che sarebbe successo in seguito», è la conclusione di Mauro che lascia spazio ad un Veltroni in vena di ricordi. Metti quella sera, a cena, a Sabaudia, Ettore Scola, Sandro Curzi, Pajetta e Mafai, a coltivare memoria delle persecuzioni razziali, della guerra mondiale, della Resistenza, fatti e anni cruciali della storia d'Italia filtrati dall'occhio di una donna che sapeva «prendere i venti del destino», come recitano, in apertura del libro, i versi di Edgar Lee Masters. Dalla collina di Spoon River a quella «barca che anela il mare eppure lo teme».

Go West, altro che Pet Shop Boys, una donna fatta della stessa natura degli «uomini ovest» di Franco Cassano, quelli per cui «una porta è sempre un'uscita e mai un'entrata», come ricama Veltroni lost in Pd ma assalito da improvvisa malinconia per il Pci berlingueriano, «la più bella comunità nella quale mi sia capitato di vivere».

Per chi aveva rivendicato il suo non essere mai stato comunista (almeno nel senso tradizionale) è un cedimento al richiamo della foresta, alla nostalgia per quel «paese pulito nel Paese sporco» di pasoliniana memoria, alla rivendicazione di quella «differenza di comportamenti» che non era né superiorità morale, né settarismo. «Oggi l'espressione senza se e senza ma mi fa gelare il sangue». È una rivendicazione del ma anche? «Ma anche sì».

L'amore per gli altri, la sua inspiegabile allegria che nasce da una virtù in estinzione, la profondità e quella telefonata dopo il discorso del Lingotto quando gli disse «Adesso mi sento a casa», il primo segretario del Pd afferra memorie, squaderna aneddoti e uno scambio di lettere tra lei e Vittorio Foa sul tema rivoluzione e riformismo che in quanto «miglioramento dell'esistente, affermazione dei diritti ed eliminazione delle ingiustizie, è la più rivoluzionaria delle esperienze, e, dunque, la più difficile».

Rivoluzione, una parola che oggi sembra impronunciabile, ma che per Miriam Mafai e altri giovani della sua generazione ha significato «molte cose insieme, sia pure in modo confuso». E oggi? «L'Italia ha bisogno di cambiare classe politica», Cesarone Romiti, stira una smorfia di preoccupazione davanti ai giovani senza occupazione e ai 50enni espulsi dal mercato che il lavoro non lo troveranno più e li invita a recuperare «lo spirito del secondo Dopoguerra» per ricostruire il Paese «a partire dalla manutenzione di città, luoghi d'arte e campagne».

«Per creare lavoro, bisogna inventarselo», è la ricetta dell'ex presidente e ad Fiat che della casa torinese non parla («altrimenti dico parolacce») e sul futuro politico non vede «né Renzi, né Grillo» all'altezza del cambiamento che reclama il Paese. «Negli altri Paesi i giovani fanno valere i loro diritti, noi stiamo fermi a guardare». E a ballare in trentamila il Gangnam style in piazza del Popolo. «Ma adesso i giovani non compromessi con la politica si devono unire. Tocca a loro. È tempo di una rivoluzione pacifica». Hasta la victoria, comandante Che Romiti.

 

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