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SMETTETELA DI DARCI UNA (SECONDA) MANO – OLTRE AI DAZI ALLA CINA, GLI STATI UNITI STANNO COMBATTENDO UN’ALTRA GUERRA COMMERCIALE – I PAESI AFRICANI VOGLIONO CANCELLARE L’IMPORTAZIONE DI ABITI USATI DAGLI USA – NEGLI ULTIMI 20 ANNI L’AFRICA È DIVENTATA LA PATTUMIERA DOVE RIVERSARE CAPI NON PIÙ DEGNI DEL PRIMO MONDO – CAPOFILA DELLA RIVOLTA È IL RUANDA, CHE…
Lorenzo Simoncelli per la Stampa
Ancora pochi mesi e i vestiti usati importati dagli Stati Uniti potrebbero scomparire dagli affollati mercati dell’Africa Orientale. Non un semplice dettaglio commerciale dato che, secondo le Nazioni Unite, l’80% degli africani veste abiti di seconda mano provenienti dal Primo Mondo (Europa ed America).
All’ombra della ben più nota guerra dei dazi con Pechino, l’amministrazione Trump sta combattendo un’altra battaglia commerciale con il blocco dei Paesi dell’Africa Orientale, decisi a vietare dal 2019 l’importazione dei vestiti di seconda mano dagli Stati Uniti.
Una decisione che ha fatto infuriare Washington, date le serie ripercussioni sull’occupazione americana. Secondo la Smart, associazione che tutela l’industria dei vestiti di seconda mano con sede in Maryland, sono a rischio 40 mila posti di lavoro. Inoltre, ne risentirebbe anche l’ambiente dato che, ogni anno, un cittadino americano si disfa di circa 30 kg di vestiti che, se non riciclati, finirebbero nell’immondizia.
Così Donald Trump, fedele al motto «America first», ha minacciato i Paesi dell’Africa Orientale di interrompere i privilegi commerciali derivanti dall’Agoa, un trattato di scambio quasi esentasse in vigore tra Stati Uniti e molti Paesi africani.
Capofila della rivolta, il Ruanda del sergente di ferro Paul Kagame che in un mix di pragmatismo e sagacia politica ne ha fatto un principio di dignità, rimanendo fermo, nonostante la minaccia trumpiana, sulla decisione di innalzare le tariffe sui vestiti di seconda mano importati dagli Stati Uniti.
Il piccolo, ma sempre più influente Stato dell’Africa Orientale è conscio, al contrario di altri Paesi della regione, di rischiare meno in termini economici. Il Ruanda spende 100 milioni di dollari all’anno per importare abiti di seconda mando dagli Stati Uniti, ma i benefici di Agoa sono relativamente bassi, dato che esporta merci verso gli Usa per un valore pari a 43,7 milioni di dollari.
Il rischio da correre
Con un’economia in forte crescita e l’avvallo degli imprenditori dell’industria tessile è un rischio che Kagame ha deciso di prendersi per ergersi sempre più come liberatore dall’imperialismo americano.
«È una grande opportunità di business – ha detto la stilista ruandese Linda Mukangonga e fondatrice della casa di moda Haute Baso – in Ruanda è arrivato il momento di produrre i nostri vestiti e indossare gli abiti realizzati qui».
Se il divieto entrerà in vigore, 22 mila persone impiegate nell’industria degli abiti usati perderanno il lavoro, ma il presidente Kagame sembra aver pensato anche a questo. Un aumento della produzione supportata dagli investimenti cinesi, secondo lo statista, garantirebbe un immediato reintegro dei lavoratori nel settore tessile. Come avvenuto in Etiopia, tornata ad essere leader nella produzione dei tessuti in Africa grazie a Pechino.
Come per le auto
Negli ultimi vent’anni, a causa del collasso dell’industria tessile, così come per le auto e gli oggetti elettronici, l’Africa si è trasformata nella pattumiera dove riversare capi di abbigliamento non più degni di essere vestiti dai cittadini del Primo Mondo.
Nella Repubblica del Congo la produzione di kanga, indumento usato da uomini e donne, è diminuito dell’83% a causa della prolungata guerra civile e dell’instabilità politica. Il fragile contesto ha portato anche alla fuga degli investitori esteri e alla chiusura delle aziende che raccoglievano cotone: il colpo del ko per un settore già allo stremo.
I posti di lavoro
Se da una parte lo stop all’import di vestiti usati potrebbe generare una rinascita della produzione tessile Made in Africa, dall’altra c’è il rischio che il sistema Paese, energia e trasporti su tutto, non sia ancora pronto per il grande salto.
«Migliaia di persone in Africa vivono grazie alla vendita di vestiti usati, perché la maggior parte della popolazione non si può permettere abiti nuovi – ha detto Sunny Dolat, stilista kenyota e autore del libro “Not African Enough” –. Serve una rete solida prima di abbandonare del tutto il mercato dell’usato».
Secondo i dati del Dipartimento del commercio americano, infatti, il divieto potrebbe bruciare tra 219 e 335 mila posti di lavoro. Solo in Kenya, lo Stato che importa più vestiti dagli Stati Uniti, circa 130 mila tonnellate all’anno, 160 mila persone sarebbero disoccupate in poche settimane.
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