“C’È CHI LA CHIAMA POESIA, IO LO CHIAMO GIANNI MURA” - CROSETTI: "LUI LE PAROLE LE CONOSCEVA TUTTE, AMANDO DI PIÙ QUELLE FRANCESI COSÌ COME AMAVA IL TOUR QUASI PIÙ DI OGNI COSA. DA GIANNI HO IMPARATO CHE IL RACCONTO È MOVIMENTO. LUI È IL PIÙ GRANDE GIORNALISTA ITALIANO DI TUTTI I TEMPI, È PIÙ GRANDE DI BRERA CHE GLI FU MAESTRO, PERCHÉ È PIÙ BUONO" – VERDELLI: “CHE LA TERRA TI SIA LIEVE”. SOTTO QUELLA TERRA ADESSO, INSIEME ALLA TUA BARBA RUVIDA, C’È UN PEZZO DI REPUBBLICA” – IL RICORDO DI MALAGO’ – LA CRONACA DEI FUNERALI DI DE ANDRE’ E QUELLE SIGARETTE PASSATE A MERCKX, VIDEO
CARLO VERDELLI per repubblica.it
Si è fermato proprio nei giorni in cui si è arreso anche lo sport. E’ sceso di bicicletta, è andato a sedersi in panchina, ha lasciato il campo di cui è stato l’ultimo campionissimo. Pochi giorni fa mi aveva detto: dai, diretur, che ce la facciamo.
Sì, dobbiamo proprio farcela, Gianni. Te lo dobbiamo: noi, tuoi allievi di Repubblica, la comunità grande dei nostri lettori, e chiunque si sia emozionato per le tue cronache dal Tour, per le migliaia di montagne che hai scalato con i tuoi ciclisti, per tutte le partite di calcio che ci hai fatto vivere come se fossimo lì, per il talento purissimo e brusco che hai sparso in ogni articolo, intervista, ritratto, per essere stato l’arbitro, volutamente di parte, nell’appuntamento imperdibile e perduto con i tuoi “Cattivi pensieri”, fino all’angolino in ultima pagina, “Spassaparola”, che oggi lasceremo bianco e magari anche domani e dopo.
Quando scrivevi l’addio a qualcuno, terminavi sempre con questa frase: “Che la terra ti sia lieve”. Sotto quella terra adesso, insieme alla tua barba ruvida, c’è un pezzo di Repubblica, che ti starà accanto per farti compagnia, come tu l’hai fatta a noi.
MALAGÒ: "CI HAI DONATO POESIA PURA"
GIOVANNI MALAGO' per repubblica.it
A nome personale e del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, interpretando i sentimenti dell’intero mondo sportivo, mi stringo al dolore del Direttore Carlo Verdelli e di tutta la redazione di Repubblica nel ricordo di Gianni Mura, un gigante del giornalismo e un indimenticabile fine dicitore del nostro mondo, abbracciando idealmente la famiglia e tutti quelli che hanno voluto il privilegio di conoscerlo e di apprezzarlo.
Ci hai donato poesia pura, traslandola sul ‘tuo’, nostro mondo. Oggi hai voluto riservarci un dolore immenso, tanto difficile da raccontare che, forse, avresti fatica anche tu, caro Gianni. Tu che con le parole hai sempre disegnato arcobaleni e descritto sogni, riuscendo a decodificare con la scrittura anche quello che le sensazioni più intime raccontano solo al cuore.
Te ne sei andato in punta di piedi, in un attimo interminabile che ci lascia sgomenti. Non c’è un aneddoto, un momento per ricordarti. C’è una vita intera da celebrare, dedicata a quella passione travolgente chiamata sport, vissuta e raccontata con inimitabile maestria, grazie alla tua sapienza stilistica e alla tua visione illuminata.
Ci hai ‘accompagnato’ attraversando i decenni, ci hai regalato pagine indimenticabili, narrando le vittorie e le sconfitte del nostro mondo con lucida e mirabile capacità, senza risparmiare critiche, senza lesinare consigli, senza mai dimenticare di essere te stesso. Hai fatto la storia del movimento, raccontandolo nella sua accezione multidisciplinare, nella sua dimensione, universale come i messaggi che hai scolpito nel cuore di tutti noi. Hai meritato stima e credibilità, avvicinato i giovani e coinvolto gli appassionati, incantato i protagonisti. Hai scritto e descritto tanti fuoriclasse ma il vero campione eri tu e oggi tocca a noi ricordarlo. Con emozione e gratitudine, certi che il tuo esempio non verrà disperso. Ciao, Gianni. E grazie. A nome di quello sport che hai portato nel cuore. Lì, dove noi conserveremo il tuo ricordo intramontabile.
IL RICORDO DI GIANNI MURA
MAURIZIO CROSETTI per repubblica.it
Prima le persone e poi le parole, e lui le parole le aveva bellissime, le più belle di tutti. E andare, andare sempre a guardare. Parlare con gli altri, osservare i dettagli, gli oggetti, le forme e le tinte delle cose. Scrivere, quello viene dopo. Scrivere, diceva Gianni, è come cucinare, ma conta molto di più fare la spesa. Quando hai le cose giuste sul tavolo, quando al mercato hai scelto bene, poi i piatti vengono buoni per forza.
Gianni, mi spieghi come giocava Peirò? Gliel’ho chiesto l’altro ieri sera al telefono, quando Gianni mi disse che aveva ancora una discreta scorta di Settimana Enigmistica e Domenica Quiz, e poi sul comodino la saga familiare di Giorgio Fontana, “un bel Sellerio spesso così”, e un giallo di Robecchi. Com’è Robecchi?, gli ho chiesto. Non male, mi ha risposto Gianni.
E poi ha cominciato a parlarmi di Peirò, di come nell’Inter giocasse quasi solo in Coppa, di quel gol al Liverpool naturalmente. E poi mi ha parlato delle matite e dei pennarelli, mi ha detto che era stato giusto scriverne su Repubblica. Lui, le matite le usava per i cruciverba. Gianni Mura mi ha insegnato che scrivere è prima di tutto leggere, ed è ascoltare una canzone. E’ curiosità degli altri, altrimenti cosa scrivi a fare. Scrivere è ricordare, certo, ma anche immaginare. Gli piaceva quella cosa della nostalgia del futuro, quella malinconia che ci prende quando le cose non ancora accadute ci mancano già.
Da Gianni ho imparato che una coppa di pesche e spumante è formidabile contro la febbre alta. Lui mi curò così, una notte, nel nostro mondiale tedesco del 2006, tornati a Dusseldorf da Dortmund. Era la sera della semifinale vinta. Febbre a 39°, viaggio in treno in piedi, caldo torrido. Poi, nel bar deserto dell’albergo quell’insalatiera piena di pesche e spumante, lasciata lì chissà perché, come un sogno, un’invenzione. Ci sedemmo, bevemmo, mangiammo. Poi una dormita biblica, e la mattina freschi come rose.
Da Gianni ho imparato che in qualunque posto del mondo bisogna creare casa: la trattoria, il giornalaio, il fruttivendolo. Se ci torni ogni giorno, sei a casa. E bisogna mandare cartoline, non lettere ma cartoline, alle persone che amiamo. Lui alla sua Paola ne mandava sempre, da qualunque posto del mondo. Il fruttivendolo è molto importante. Bisogna comprare un po’ di frutta la mattina delle partite in notturna perché poi, tornati in albergo, è meglio mangiare quella piuttosto che le schifezze.
Da Gianni ho imparato che la cosa degli aggettivi da togliere è una scemenza. Bisogna metterli, invece, ma solo quelli giusti, Ma vale per tutto, i nomi, i predicati, i complementi, le virgole, i punti. Solo il punto e virgola non gli garbava: è come il vino rosé, diceva. E il vino o è rosso o e bianco, meglio naturalmente il rosso. A proposito: mica vero che si deve rinfrescare in frigo solo il bianco. Anche col rosso si può, anzi si deve. E poi l’altra stupidata: col pesce solo il bianco. Ma quando? Certo non un barolo, ma un buon barbera non troppo vecchio sì. Tutto questo mi ha insegnato Gianni.
Da Gianni ho imparato che le parole sono un gioco. Nella loro forma più intima, corporea, le assonanze, le sillabe, lo sposalizio tra vocali e consonanti, la rima, il ritmo, c’è già il loro destino nel mondo. Scivoleranno nella frase proprio dal modo in cui sono fatte. C’è chi la chiama poesia, io lo chiamo Gianni Mura. Lui le parole le conosceva tutte, amando di più quelle francesi così come amava il Tour quasi più di ogni cosa. Da Gianni ho imparato che il racconto è movimento: prima di noi stessi, poi delle nostre frasi. E mai fare le mnemoniche con lui (calciatori con la effe, scrittori con la erre): avresti sempre perso.
Da Gianni ho imparato che i maschi, quando si vogliono bene, si abbracciano come orsi. La sua guancia pungeva, la sua pancia arrivava prima di lui. E tu eri timido, sempre un po’ in soggezione di fronte al più grande giornalista italiano di tutti i tempi, non il più grande sportivo, il più grande e basta, non ci sono giornalisti sportivi, o sei giornalista o sei altro. Per me, Gianni Mura è più grande di Brera che gli fu maestro, perché è più buono.
Da Gianni ho imparato che le cose si dicono e si scrivono, costi quel che costi. E che la tenerezza è la migliore forma di forza. Lui era un mite duro, un romantico con la faccia da romanzo. Il bicchiere, diceva Gianni, sempre mezzo pieno. E il pezzo, sempre dieci righe in più che in meno: per chi lavora in redazione sarà più facile metterlo in pagina, tagliare si può sempre, aggiungere no.
Quando morì Brera, Gianni scrisse il suo articolo più commovente. Un flusso, come galleggiare da un’altra parte, in qualche spazio perduto nell’universo. Le parole vennero chissà come, in tutto quel dolore. Arrivavano dalla vita di prima, tutto arriva da lì. Ma io adesso non riesco a immaginare una vita di parole senza le sue parole.