"NOI SIAMO QUELLI FORTUNATI" – LA CORRISPONDENTE DELLA CNN IN AFGHANISTAN, CLARISSA WARD, HA LASCIATO KABUL – L’HA ANNUNCIATO LEI STESSA CON UN POST SU TWITTER – MA SE I GIORNALISTI STRANIERI SONO STATI TENUTI ALLA LARGA CON INSOFFERENZA QUELLI AFGHANI SONO STATI "SILENZIATI" - DUE CRONISTE SONO STATE BANDITE DALLA TV PUBBLICA PERCHE' DONNE - COSA RIUSCIREMO A SAPERE DELL'AFGHANISTAN IN FUTURO SENZA CRONISTI INDIPENDENTI A KABUL?
La corrispondente della Cnn in Afghanistan, Clarissa Ward, ha lasciato Kabul. È stata lei stessa ad annunciarlo in un tweet, postando una foto mentre si trova a bordo dell'aereo che l'ha evacuata: «A bordo del nostro volo, ci prepariamo al decollo». Dopo la presa della capitale da parte dei talebani, ci sono stati momenti di tensione per la Ward e la sua troupe, e il suo producer ha rischiato di essere preso a colpi d'arma da fuoco questa settimana e lei stessa invitata brutalmente a coprisrsi il volto.
Nei giorni scorsi sui social erano circolate insistentemente due foto della giornalista, in cui veniva mostrata senza velo nella prima e con l'abaya nero a coprirla interamente nella seconda, una presunta riprova del precipitare della situazione nel Paese, per le donne in particolare.
Il meme aveva suscitato una valanga di reazioni ma la Ward lo aveva definito «inaccurato», sottolineando che nel primo caso si trovava dentro «un compound privato» mentre nella seconda foto era ripresa «per le strade di Kabul sotto il controllo dei talebani».
Ieri il suo messaggio sollevato: «Appena atterrata a Doha con il team e quasi 300 afghani evacuati. Grazie infinite a tutti voi per il vostro sostegno e preoccupazione, all'Us Air Force per averci fatto volare e al Qatar per averci accolto. Noi siamo fortunati».
GIORNALISTI SENZA VOCE
Paolo Mastrolilli per “la Stampa”
Anche Clarissa Ward, l'inviata della Cnn diventata il volto del giornalismo occidentale in Afghanistan, ha lasciato il Paese. Indossare il velo nero dopo la caduta di Kabul non bastava a proteggerla, e quindi è saggiamente salita sopra un volo militare americano diretto a Doha con centinaia di afghani. Lo ha annunciato lei stessa via Twitter: «Enormi ringraziamenti a tutti voi per il vostro sostegno, all'aeronautica militare Usa per averci portato fuori e al Qatar per averci accolti.
Noi siamo quelli fortunati», ha scritto la 41enne reporter che nei giorni scorsi era stata apostrofata durante un servizio per le vie di Kabul dai taleban: «Copriti il volto», le hanno urlato prima di tentare il sequestro delle telecamere. Prendendo come simbolo la sua partenza, è utile fare un bilancio dei media nel Paese tornato nelle mani dei taleban, per capire cosa potremo davvero sapere della situazione sul terreno, e gli effetti che ciò avrà sulle scelte politiche interne e internazionali.
È stato infatti Peter Baker, veterano del «New York Times» alla Casa Bianca, a notare che in fondo all'amministrazione Biden conviene la scomparsa dell'Afghanistan dalle prime pagine, a patto che i cittadini americani ne escano vivi, per riportare l'attenzione su economia e Covid. I portavoce taleban hanno promesso di non prendere di mira i giornalisti.
Questo secondo la logica della doppia retorica, quella relativamente conciliante rivolta all'estero per rifarsi un'immagine, e quella più dura e vera indirizzata alla popolazione locale. In generale dovrebbero avere interesse a favorire l'evacuazione occidentale, perché al nemico che fugge si costruiscono ponti d'oro. La realtà però sta emergendo diversa, un po' perché i capi non controllano fino in fondo le pulsioni dei loro militanti negli angoli più remoti dell'Afghanistan, e un po' perché magari non gli dispiace ricordare che possono usare la minaccia di violenze e rapimenti come arma di ricatto.
Poi c'è una netta differenza tra il destino riservato ai giornalisti stranieri, e a quelli afghani, che lavorino per i media locali o come collaboratori di quelli internazionali. Le notizie, almeno quelle che riusciamo ancora a raccattare, parlano come sempre da sole. Il 16 luglio era stato ammazzato a Kandahar il premio Pulitzer Danish Siddiqui.
I taleban hanno ucciso almeno un famigliare di un collaboratore di «Deutsche Welle», il traduttore di «Die Zeit» Amdadullah Hamdard, hanno sparato al direttore della radio Paktia Ghag Toofan Omar, e rapito Nematullah Hemat della Ghargasht TV. Quando il Norwegian Center for Global Analyses, consulente dell'Onu, ha avvertito che è ripresa la «caccia porta a porta» dei nemici, intendeva anche i reporter. Almeno due giornaliste sono state bandite dalla tv pubblica in quanto donne, nonostante l'eroismo di Beheshta Arghand, che su Tolo News ha intervistato un membro dei taleban a volto scoperto.
Il Committee to Protect Journalists di New York ha chiesto l'evacuazione di 475 giornalisti, afghani e stranieri, mentre Reporter senza frontiere si è appellata a Biden affinché aiuti la fuga anche dei colleghi locali, e ha domandato al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di tenere una sessione sui media a Kabul. Lunedì gli editori di «Washington Post», «New York Times» e «Wall Street Journal» hanno scritto al capo della Casa Bianca per ottenere l'evacuazione dei loro 204 dipendenti, e mercoledì Michael Slackman del Times ha confermato che i 128 collaboratori afghani e i loro famigliari sono usciti.
Questa comprensibile fuga pone il problema di quanto riusciremo davvero a capire dell'Afghanistan, magari attraverso gli stringer locali ancora disposti a rischiare la vita. Ma il problema è anche quanto vogliamo sapere, e fino a quando durerà la nostra attenzione. Il Tyndall Report ha notato che quando Trump aveva firmato l'accordo con i taleban per il ritiro, i tg di Abc, Nbc e Cbs avevano dedicato in tutto 5 minuti alla notizia.
Baker ha sottolineato che giovedì «non sono stati pubblicati articoli di prima pagina sull'Afghanistan in città come Boston, Austin, Chicago, Atlanta, Indianapolis, Fresno o Miami», mentre gli ascolti di Cnn e Msnbc non aumentano. «Il freddo calcolo politico - ha aggiunto - è che agli americani non importerà cosa accade in Afghanistan, purché gli americani siano al sicuro».