FINO A TRENT’ANNI FA A FARSI IMBRATTARE LA PELLE C’ERANO SOLO I MALVISSUTI: OGGI, INVECE, E’ DIVENTATO MARCHIO PER LA MAGGIORANZA, CONFORMISMO SPINTO. DAL RAPPER AL PRETE, CE L'HANNO TUTTI
Stefano Di Michele per “il Foglio”
Quelli erano giorni. I bei deviati/depravati di una volta: il carcerato di prolungato soggiorno, il marinaio di lunga navigazione (ma come fanno…), la mignotta di vasta esperienza. Tutto materiale che veniva buono, per esempio e a ragione, a Cesare Lombroso – solo per dire dell’aurea sovversiva che circondava costoro, nella felicissima e gravosa condizione di nemici numero uno dell’ordine sociale apparecchiato e lucidato. E mica un secolo fa, ma ancora trent’anni fa.
Quando il tatuaggio significava qualcosa – un’appartenza, una sfida, un destino. “Ho fatto piangere mamma”, portava inciso il delinquente di borgata là sopra l’avambraccio, che in cella ci s’ingegnava con una cannuccia, un ago da cucire e il motorino del walkman – e copiose lacrime materne scivolavano verso il dorso della mano, e spine e coltelli e croci, e cinque punti neri e oscuri piazzati tra il pollice l’indice.
“Rinchiuso tra le quattro mura della cella”, stavano a significare, così che il punto galeotto tra i restanti quattro vigilanti figurava. Il tatuaggio come celebrazione dell’altro che si era – navigante con donna in ogni porto (e forse mozzo in ogni sala macchine), la salvifica puttana che dal marciapiede s’innalzava e la quiete piccolo borghese turbava. Comunque curiosità o timore – e sempre presa di distanza.
Significava qualcosa, allora, il tatuaggio. Poi, dalla mummia di Similaun (pure essa, pare, debitamente tatuata) al personaggio degno di Melville all’insipido prezzemolino televisivo – col fregio Maori su una chiappa e quello dei Dayak del Borneo sulla spalla – il ritmo si è fatto frenetico. Tatuati di tutto il mondo, unitevi! Nessuno più sfugge, nessuno che non ceda, nessuno che non offra l’inguine o il polpaccio.
E la rispettabile temibile minoranza di una volta si è trasformata in una sorta di tediosa e vanitosa e gelatinosa maggioranza. Nemmeno silenziosa – il miglior pregio, di quell’altra maggioranza che fu. E’ così siamo arrivati al dominio (estetico, mediatico) della ciarliera, esibizionista maggioranza tatuata. Il Gran Banale, oggi, è tatuato. Il Meglio Conformista è tatuato. Lo stesso senso comune appare tappezzato di svenevolezze e ghirigori tra fiori e tigri e cheguevari – avvolto in una sorta di carta da parati come nei peggio salotti di provincia degli anni Cinquanta.
Le vecchie zie, ormai trapassate, non ci salveranno più – se mai qualcuno hanno salvato. Forse, solo qualche dignitoso avamposto di monache riparate in clausura lasciano ancora un filo di speranza (ma neanche tocca illudersi troppo: “L’altro anno ho persino tatuato un prete”, raccontava un esperto tatuatore in un’intervista). I ridotti dei centri anziani: tatuaggi e bocce non dovrebbero incrociarsi molto.
Le casalinghe del discount (ma pure quelle, sotto i cinquant’anni, lasciano ormai poco scampo: basta annotare, in zona surgelati, il filo del perizoma turchese che occhieggia tra le burrose chiappe). E’, il tatuaggio, il segno più visibile dell’ulteriore omologazione – del tutto uguali credendosi tutti diversi, della trasgressione piazzata in offerta speciale, dell’ammasso generale vissuto quasi con orgoglio di avanguardia: altro, e ben oltre, che la pasoliniana scomparsa delle lucciole.
E’ un accorrere generale all’ago e allo stencil: ce l’ha il delinquente e ce l’ha lo sbirro (venne pure fuori la storia di un carabiniere, che fu indagato per certi scontri, riconosciuto nelle foto da un tatuaggio), il borgataro e quello di zona centro, l’imprenditore e l’operaio precario, la sposa in abito bianco e il calciatore esultante e il tifoso teppista, il rapper (con tela di ragno che si prolunga fin sotto al mento, roba da far invidia all’Uomo Ragno medesimo) e tiè, come da testimonianza, il prete, il fascio e l’antagonista, il riformista e il reazionario, lo studente e la vicepreside – di tutti questi non ne citiamo nemmeno uno per nome, per non far torto a nessuno.
Avendo perso ogni forza eversiva (ci sono stati persino corsi regionali per indirizzare verso l’apposita professione di tatuatori: come se fosse una sorta di istituto alberghiero), essendo ormai una marchiatura di massa, da intere tribù metropolitane, per naturale evoluzione/ involuzione si è mutato nel tratto distintivo del più piatto conformismo. Se la farfallina di Belen allusiva, e in prossimità, sbatte le ali, è subito un levarsi alto, nei cieli della patria – oltre nei pressi del sempre meno sorvegliato inguine – di stormi di farfalle. Perciò, quesito: come trattenere lo sbadiglio, di fronte all’ennesimo tatuaggio? Perché poi è il tatuaggio ripetitivo, non si scappa.
“Che figo, ma dove l’hai fatto? Lo voglio anch’io, anch’io!”, in un frenetico affastellarsi di stelle nautiche e soli atzechi e yin & yang (ancora?) e rampicanti che serrano le tette e diavoli (oh, che brivido!) che sortiscono ghignanti in zona testicoli (a compensazione, magari, della più mesta visione circostante).
L’ombra trionfante del tamarro ideale, per quanto glamour si possa spandere sopra all’ingegneristico reticolato, sempre in agguato e sempre più vittoriosa s’innalza – ché nessuna possibilità reale ha il tatuaggio di mutarsi davvero in qualcosa di elegante (per quanto, nel senso dei giorni, e col gusto di calciatori fuori campo, il vistoso per elegante possa essere spacciato): saranno piuttosto un dì come i nostri pantaloni a zampa d’elefante, come le camicie con tre colletti di diverso colore e tre bottoni al polsino, il sandalone col calzino.
E raccontano infatti che le cronache dell’inversa transumanza di coloro che, con invocazione del risolutivo laser, tornano indietro ed esigono adesso la scarnificazione della pelle colorata, la rimozione del manufatto che apparve glorioso, del reticolato che stringeva i pettorali.
Ma sono ancora incerta minoranza, rivolo incerto rispetto al fiume impetuoso che verso la marchiatura s’avanza, delle falangi che sfogliano vogliose i cataloghi, scrutano con libidine l’elaborato sulla coscia della vicina di spiaggia, concupiscono il teschio sul polpaccio del confratello di sventura sul tram affollato, s’ingegnano a nuove quotidiane trovate così da non lasciar scampo neanche al riposto lembo di pellame situato sotto l’ascella – ché, come diceva Marinetti, “nella carne dell’uomo dormono le ali”.
Perché poi, ovviamente, essendo fenomeno di ampio mercato – dalle star ai morti di fame, e soprattutto di fama: milioni di tatuati, decine di milioni di fatturato – l’istigazione è continua, la sollecitazione pressante, la pressione costante. In bilico tra supposta trasgressione e sostanziale approvazione sociale, il perfetto combinato tra il rimettersi all’ingordigia consumistica e l’ostentazione delle sbrago senza sanzione sociale – come l’esibizione della marca di mutande fuori dalle braghe calanti (fenomeno ora in mesto ripiego, ma che consentì ad Arbasino felicissima metaforica incursione sui territori de “La vita bassa”) e precedentemente l’epica gloriosa dei parrucchieri checche e chiacchieroni – domina perciò la repubblica dei tatuati e dei tatuatori, peraltro in feroce competizione solo con quella degli aspiranti cuochi e degli stellati chef.
tatuaggio all'alexandra palace
Codesti tatuati, del resto – alcuni convinti di aver fatto, tramite personale coloratura, chiarissimo atto di ribellione al sistema, posizionandosi tra Filippo Turati in fuga e Sante Caserio, “ a scuoter l’alme schiave ed avvilite” – hanno spiccatissima permalosità.
Un paio di anni fa, sul Venerdì di Repubblica, accurata disamina della faccenda fece Francesco Merlo. Accurata e feroce – il popolo dei tatuati già in vittoriosa marcia, “vandali del proprio corpo che esprimono in forma vistosa e inequivocabile, prima ancora del cattivo gusto, il cattivo umore nazionale, e bene illustrano la smania italiana di arrivare all’eccesso, come nelle commedie plebee”, e con fenomenale raffronto, proprio sul terreno del cattivo gusto, tra l’odierno tatuaggio, “sbruffo di prosopopea sociale”, e l’orrida “unghia lunga del dito mignolo” alla quale siamo fortunatamente scampati.
Il catanese Merlo fu, col precipitare di centinaia e centinaia di messaggi e messaggetti e messaggini – persino l’onore del Meridione fu tirato in ballo, nello specifico “intolleranza trasversale antinapoletana” – debitamente e ripetutamente insultato: come se fosse il fronte di uno scontro sociale, bande di destre e di sinistra, nordici e sudisti, anziché un fenomeno di (mal)costume (nel caso balneare, piuttosto ridotto: ché ormai manco più l’interno coscia si può preservare).
(Uno psichiatra, Marco Cannavicci, sul sito di “Polizia e democrazia” ha esaminato, “secondo la psicologia del tatuaggio”, i posizionamenti dei vari manufatti – con relativo esame della psicologia del tatuato stesso. Così: “Tatuarsi il tronco denota concretezza e capacità decisionali. Se la scelta cade sulle braccia, significa che l’individuo sta attraversando una fase di lenta maturazione.
Mentre le persone infantili e poco riflessive preferiranno le gambe. Se il tatuaggio si trova in una parte anatomica normalmente nascosta come l’ombelico, l’interno cosce, la persona è timida e insicura, con forte senso di inferiorità. La caviglia è la zona preferita dalle donne sospettose e gelose, ma anche molto femminili, e dagli uomini competitivi e battaglieri. Tatuarsi le zone genitali, infine, assume significati opposti per uomini e donne. Combattive, autonome e sensuali queste ultime. Maldestri e passivi i primi”. Adesso, se è il caso, regolatevi).
Sempre, poi, un richiamo a gloriose tradizioni soccorre: certi popoli di atolli sperdute, certe mummie congelate, certi nativi americani (sarebbero gli indiani), certi lottatori a onore del mondo tutto. E persino Churchill che aveva l’ancora della marina inglese in effigie (a buona ragione, da Lord dell’Ammiragliato). Pure nelle cronache – sportive, con svestizione dopo gol in campo; televisive, con illustrazioni dell’ultimo manufatto in diretta nel pomeriggio – il tatuaggio spesso ha il suo spazio.
A discolpa, persino, a volte chiamato. Come successe a Roma, quartiere di molto cool e di molto spaccio, dopo una rissa e botte ad alcuni immigrati bengalesi. Ne venne fuori solita (e giustificata, si capisce, seppur a volte lagnosa e ripetitiva) deplorazione antirazzista – ah, le svastiche! ah, i fasci! Soltanto che il principale accusato si presentò così al cronista di Repubblica: ‘ “Eccome qua, io sarei il nazista che stanno a cercà da tutti i pizzi.
Guarda qua, guarda quanto so’ nazista…’. La mano sinistra solleva la manica destra del giubbetto di cotone verde che indossa, scoprendo la pelle. L’avambraccio è un unico, grande tatuaggio di Ernesto Che Guevara. ‘Hai capito? Nazista a me? Io sono nato il primo maggio, il giorno della festa dei lavoratori…’”. I vasti ettari di pelle tatuati in Italia negli ultimi anni, vasti ormai quanto i possedimenti di Mastro Don Gesualdo, raccontano anche certe storie curiose – ma sempre più raramente, e sempre più si tratta di semplicemente sdoganata ostentazione.
(A meno che non ci si voglia buttare sul commercio della propria pelle. A parte un artista, diciamo artista, che fa i tatuaggi sui maiali in Cina – percià la pelle risulta quella delle povere bestie – c’è il caso del polacco che si è tatuato un giaguaro sul novanta per cento del suo corpo, e ha poi messo il suo pellame in vendita, va da sé: post mortem, su eBay a 75 mila euro. Al fortunato compratore non resterà poi, a trapasso avvenuto, che procedere allo scuoiamento – per farsene poi cosa, di un giuaguro tatuato sulla pelle di un polacco morto: un tappetino da bagno? Mah…).
Il tatuaggio è per sempre, se la santità del laser non soccorre in seguito – ma non resterà per sempre. E’ c’è solo da immaginarla, una pelle che era tonica e tesa alle prese col passare dei decenni, lo sprofondare del cavallo o della fatina o del branco di pesci tra le rughe che si formano, il cascame epidermico che avanza, la trippa che si dilata o si restringe, la sempre traditrice cellulite. Così da farsi pendula, l’opera, dall’accartocciarsi su se stessa come la foglia di Montale, dall’inabissarsi tra gli scherzi feroci del corpo, un perdere luminosità e contorni come dentro una sera di dicembre.
Quasi un lento penoso angoscioso dissolvimento – con la sensazione (fatte le dovute proporzioni, e tutto con il massimo rispetto per il genio da Vinci) che doveva aver provato Leonardo quando dalle pareti della Sala del Gran Consiglio cominciarono a colare i colori della sua “Battaglia di Anghiari”, lo scivolare liquido di cavalli e cavalieri e armi, fino alla perdita totale del capolavoro (quello lo era di sicuro).
Ci si penserà. In seguito. Ora, è il momento del trionfo sociale del tatuaggio e del tatuato, felice di credersi così diverso e di essere nella sostanza parte della stessa identica tribù – pure col Che da una parte e col Mascellone da balcone dall’altra. E’ un tratto unificante, il tatuaggio. Meglio dell’Inno d’Italia – lassù al nord, laggiù al sud. E per forza di cose, la media del tutto. Appunto da maschio (e femmina) medio, è la marchiatura. Cominceranno a regalarla per la cresima, al posto dell’orologio.
Agli sposi (un bel dittico nuziale, per esempio), al posto della lista di nozze. Al nonno ringalluzzito dalla recente scoperta del Viagra. Le mamme ai figlioli: ma non ti vergogni ancora, quattordici anni e nemmeno un tatuaggio? Tuo cugino Filippo ne ha già tre! Verrà associato a un premio letterario. Sarà compreso nel Gratta & vinci. La cugina zitella trarrà giovamento nell’incisione di una frase di Julio Iglesias, “baciami, bacia tutta la mia pelleeeeee…”, da far intravedere in ascensore al geometra del piano di sopra.
Tutto il ceto medio riflessivo di una volta sarà col bicipite scarsamente palestrato ma decentemente affrescato. Tutto il proletariato si affratellerà alzando i pugni e scoprendo il virile polpaccio di pelo e bandiere rosate. Il tatuaggio, questo nostro segno visibile di ogni senso comune. La certificazione del moderno benpensante. Alla lotta e all’ammasso! Avanzi, la maggioranza tatuata! Forse resterà alla fine solo Mike Bongiorno, nella memoria, come massima trasgressione. E per quelli di più sottile dottrina, magari Mariano Rumor. O Derossi: era pur sempre il primo della classe.