“IL RANCORE CE L’HO E ME LO TENGO” - FILIPPO FACCI SPIEGA PERCHÉ NON È D’ACCORDO CON MELANIA RIZZOLI E IL SUO ARTICOLO SUI DANNI CAUSATI DAL RISENTIMENTO: “MI TIENE VIVO, ANCHE SE NON VIVRÒ MAI PER ESSO: TUTTAVIA LO REGGO, HA IL SUO POSTO, MI CONSENTE DI RICORDARE CHE COSA SONO GLI UOMINI IN GENERALE, CHE COSA SONO ALCUNI UOMINI IN PARTICOLARE, E PERSINO - RIGUARDANDOMI ALLO SPECCHIO, OGNI TANTO - VAGAMENTE CHI SONO IO”
Filippo Facci per “Libero quotidiano”
L' amica Melania Rizzoli ha scritto un articolo (qui, martedì) per spiegare che il rancore accorcia la vita, che perlopiù non vale la pena, che spesso rappresenta la mancata soluzione di un malessere che conduce a squilibri emotivi, insomma: il rancore - riassumo - non serve a niente se non a inacidirsi, logorarsi, accumulare frustrazione, perdere serenità, guadagnare fobie, insomma è un inferno che è meglio evitare per non farsene consumare o diventare «animosi, astiosi, antipatici, distruttivi» più altre caratteristiche che in vita mia mi hanno attribuito spesso: anche perché io, in effetti, sono una persona che porta rancore.
Proprio così: lo ammetto, io in genere non dimentico, e non voglio farlo, anzi, coltivo amorevolmente i miei rancori e giudico la vendetta un' arte irrinunciabile, nonché, entro certi limiti, un basamento della giustizia umana.
Quindi non sono/sarei d' accordo con l' articolo che Melania Rizzoli ha scritto, per come mi era sembrato: ma spiegare il perché, anzitutto, è importante per non generalizzare - come ho fatto io per primo, leggendo - ed è importante anche per capire se usiamo lo stesso vocabolario quando parliamo di rancore, o livore, vendetta, rivalsa, ripicca, risentimento, animosità, astio e altri termini che attenzione, non sono sempre sinonimi: e non sempre si possono liquidare come agenti che fanno male alla salute.
Naturalmente esiste un limite che divide ciascuno dal patologico, dalla nevrosi, dalla malattia: ma quello c' è per tutti i sentimenti umani, del resto è anche vero che molti grandi uomini erano dei grandi malati o dei grandi depressi. Invito a riflettere su una banalità, intanto: quasi tutti noi, quando andiamo al cinema, tendiamo a vedere film squisitamente intrisi di vendette e vendicatori, di rancori serbati per anni o per decenni, o, in caso di buonismo, di vendette della vita, che fatalmente tende far quadrare le cose: tutte storie spesso «fuori dalle regole», «con metodi poco ortodossi», con «uomini veri» rispetto a ominicchi, in ossequio a stilemi che non appartengono al nostro quotidiano ma che una parte di noi ammira.
I MODELLI DAL CINEMA
Poi, però, quando usciamo dal cinema, quei modelli che li ricacciamo nell' immaginario, e mai, per dire, li insegneremmo a dei bambini. Perché la violenza non serve. Vendicarsi è inutile. Farsi giustizia da soli è incivile. I duelli sono da regrediti. Gli uomini veri, figurati, sono una cazzata. E naturalmente, ecco: il rancore accorcia la vita. Sono solo dei film, ho capito: ma i film in teoria copiano la vita e comunque c' è lo stesso qualcosa che non quadra, o forse, secondo me, c' è una verità che sta nel mezzo, tanto per cambiare.
Ed è questa: da una parte c' è la necessità di basare la società su regole civili, non si discute; ma, dall' altra, c' è una maggioranza che non serba rancore perché semplicemente non ne è capace. Gente che non si vendica perché non ne è in grado. Non si fa giustizia perché non è abbastanza forte, oppure ha paura. Soprattutto, gente che ha la memoria corta (che è il mezzo più comodo per tirare avanti) e attenzione, sto parlando di rivalse o vendette rigorosamente dentro le regole, non di pagliacciate di chi ha visto appunto troppi film.
La gente, voglio dire, tende a dimenticare. La gente finge di aver perdonato. La gente non serba rancore: ma non tanto perché fa filosofia, ma perché serbare rancore senza abbruttirsi o ammalarsi, o comunque senza diventarne vittima, è un lavoro che necessita di, come dire, due palle così.
Il rancore va gestito e bisogna poterselo permettere, altrimenti meglio lasciar perdere. Non sto parlando degli invidiosi sociali, degli haters, degli abbruttiti che serbano rancori (contro chiunque) pur di non incolpare se stessi dei propri insuccessi: quelli sono un' altra cosa, anche se è una cosa importante, perché gli invidiosi sociali stanno prendendo il potere. Io sto parlando di un' incapacità di portare rancore che coincide con la legittimazione di uno dei peggiori difetti italiani: il lasciar perdere perché «non serve», perché tutto s' aggiusta, perché il tempo lava le ferite, e che t' incazzi a fare, il passato è passato, ancora stai a pensarci, domani è un altro giorno. Un cazzo, dico io.
PIATTO DA SERVIRE FREDDO
Adagio per adagio, allora aggiungo che la vendetta va servita fredda: ma per conservarla serve una dispensa ampia, capiente, riempita anche della vita che intanto continua a marciare senza che la dignità personale e il passato siano d' intralcio, ma neppure abbiano date di scadenza.
Senza la memoria, e il rancore che la tiene viva, non può neanche esserci un perdono (che è un' eccezione, non una regola) anche se il classico italiano, o forse l' uomo moderno, ha la prescrizione troppo facile: se t' incazzi per il passato, lui cerca di farti passare per scemo, cioè per rancoroso. Purtroppo abbiamo cattivi riferimenti, anche perché in politica, per esempio, il rancore non dovrebbe esistere, la politica non si fa col risentimento - quante volte me l' hanno detto - e io infatti non faccio politica, anche perché in politica il tradimento è tranquillamente ammesso, e io i traditori li impiccherei tutti.
Nella vita reale dovrebbe essere diverso, ma ormai si tende a politicizzare anche i rapporti personali e a gestire i rapporti più con il cervello e meno con il cuore. E lo dico nonostante io abbia vissuto per anni a Roma, dove è bellissimo mischiarsi e dove è normalissimo abbracciare una persona che ha tentato di accoltellarti la sera prima. Insomma, io il rancore ce l' ho, e me lo tengo, mi tiene vivo, anche se non vivrò mai per esso: tuttavia lo reggo, ha il suo posto, mi consente di ricordare che cosa sono gli uomini in generale, che cosa sono alcuni uomini in particolare, e persino - riguardandomi allo specchio, ogni tanto - vagamente chi sono io.