CUCCHI, GIUSTIZIA È SFATTA – E I PARENTI DEI PROSCIOLTI (AGENTI E INFERMIERI) HANNO OFFERTO IL DITO MEDIO ALLA FAMIGLIA DI STEFANO

1. CUCCHI
Jena per "La Stampa" - In altre parole fu un suicidio assistito.

2. CUCCHI, UN PROCESSO SENZA GIUSTIZIA
Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera"

Più di 7 ore di camera di consiglio. Per una sentenza che già fa discutere e indigna i genitori e la sorella di Stefano Cucchi, il ragazzo morto in carcere nel 2009 dopo l'arresto per droga. Della sua scomparsa sono stati riconosciuti colpevoli di omicidio colposo sei medici. Hanno ricevuto pene molto più lievi di quelle richieste dai pm. I tre infermieri e i tre agenti di polizia penitenziaria sono stati invece assolti «per non avere commesso il fatto».

Quell'accusa che ieri ha ribadito con la sua rabbia composta, «Stefano è morto di giustizia», Ilaria Cucchi l'aveva già lanciata prima del processo e del suo esito deludente. Perché era, e resta, una dato di fatto. Una realtà oggettiva. Suo fratello, trentunenne con problemi di tossicodipendenza e una salute instabile che però non gli impediva di condurre un'esistenza normale, è morto perché il sistema giudiziario in cui è incappato una sera di tre anni e mezzo fa l'ha inghiottito vivo e l'ha restituito cadavere. In condizioni pietose, che escludevano il «decesso per cause naturali» certificato troppo frettolosamente.

Con la sua sentenza la Corte d'assise ha distribuito poche colpe, punendole con pene molto lievi, e di questo si discuterà a lungo. Ma è un dettaglio. Importantissimo per i destini degli imputati, condannati e assolti, e per le altre persone direttamente coinvolte, a cominciare dalla famiglia Cucchi. Ma resta un dettaglio che non cancella e nemmeno scalfisce la gravità di quello che è successo, e che per molti versi è rimasto fuori dal processo.

Stefano Cucchi è morto perché nei giorni dell'agonia voleva parlare con un avvocato e per questo ha rifiutato il cibo, senza che nessuno si preoccupasse di portare all'esterno dell'ospedale-prigione in cui era rinchiuso la sua legittima richiesta. È morto perché nei verbali d'arresto risultava «senza fissa dimora» anche se la casa in cui ufficialmente abitava era stata appena perquisita dai carabinieri, e quella falsa attestazione ha impedito che gli venissero concessi gli arresti domiciliari.

È morto perché mentre era detenuto i suoi genitori hanno tentato invano per tre giorni di incontrarlo e avere sue notizie, ma una regola glielo impediva; una regola talmente illogica che dopo questa storia è stata cambiata dall'amministrazione penitenziaria. Almeno per questo non è morto inutilmente, ma è una magra consolazione.

Questi e altri particolari, sommati uno all'altro, hanno determinato la fine precoce e tragica di una giovane vita; perciò Ilaria Cucchi ha ragione quando accusa il meccanismo burocratico e cieco che ha stritolato un semplice indagato per la cessione di due dosi di hashish a un amico e il possesso di qualche grammo di stupefacenti. Reati da pagare col carcere, non con la morte come invece è accaduto.

Di un simile destino, drammatico e assurdo, la sentenza di ieri non ha fatto giustizia. Né poteva farne, per buona parte. Di qui il rammarico, che si aggiunge allo sconcerto per quello che s'è verificato in aula, subito dopo la lettura del verdetto. Mentre dal fondo dell'aula qualcuno tra il pubblico gridava «Vergogna!» e «Assassini!», qualcun altro tra i parenti degli imputati assolti e in festa reagiva alzando contro di loro il dito medio, nel più classico e volgare dei gesti offensivi.

Il tutto a pochi metri dai resti di una famiglia in lacrime: padre, madre e sorella di Cucchi, talmente immersi nel riacutizzarsi del proprio dolore da non accorgersi nemmeno di un confronto a distanza consumato sulla loro disgrazia. Un'immagine orrenda, conseguenza di un processo dove lo Stato doveva giudicare se stesso e caricatosi di tensioni che dovrebbero rimanere fuori da un'aula di giustizia. Stavolta invece sembra che sia rimasta fuori la giustizia. Anche per via di quella scena indecente.

 

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