“IN PASSATO HO AMATO ANCHE UN UOMO” – FRANCO DEBENEDETTI A 92 ANNI PUBBLICA IL SUO DIARIO, “DUE LINGUE, DUE VITE”, E SVELA DI AVERE AVUTO UNA RELAZIONE OMOSESSUALE – SUL FRATELLO CARLO DE BENEDETTI: “PERCHÉ ABBIA SEPARATO IL COGNOME NON LO SO, MA ALL’ANAGRAFE È TUTTO ATTACCATO. PIÙ VOLTE, IN PUBBLICO, MI HA DEFINITO ‘INGOMBRANTE’” – “ALLA FIAT GESTIVO 45 MILA DIPENDENTI MA VENNI VIA QUANDO ROMITI DEFINÌ CARLO ‘UN UOMO SENZA PAROLA’. E IN QUESTO ROMITI AVEVA LE SUE RAGIONI” – “AD ASTI I MIEI AVI AVEVANO PRESTATO DEI SOLDI ALLA FAMIGLIA DI BERGOGLIO, CHE POI HA RESTITUITO TUTTO, E CON GLI INTERESSI” – “IL CASO DELL’EREDITÀ DI VATTIMO? CAMINADA È INNOCENTE”
Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo e Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera”
Franco Debenedetti, è vero che a 92 anni va a sciare?
«Certo. Sulle Tofane. E a Dobbiaco».
Come si arriva alla sua età in piena forma?
«Mio padre è morto a 99 anni: una piccola beffa per uno come lui, che voleva arrivare a cento a tutti i costi».
Genetica, dunque?
«Non so. Posso però dirvi che bevo un bicchiere di rosso a pasto e mangio di tutto, tranne la testina. E ho sempre coltivato il piacere di scivolare nel sonno accompagnato da un bel libro».
Fa movimento, oltre allo sci?
«Lunghe passeggiate in montagna. E quando è nata mia figlia Domenica, ormai trent’anni fa, ho smesso di fumare».
Lei ha altri figli?
«Tommaso. E i figli adottivi, Juan e Pietro. Quest’ultimo purtroppo non c’è più. Morì a dodici anni cadendo da un massiccio delle Dolomiti».
due lingue due vite - franco debenedetti
Sugli sci?
«No, giocando. Si era fatto una montagnola di neve, per scendere come su uno scivolo. Ma prese troppa velocità, non c’era la staccionata, e precipitò. Un dolore terribile. Non ero più io, chiesi di essere affiancato sul lavoro per non prendere decisioni sbagliate».
La voce di Franco Debenedetti si incrina: avverrà più volte nel corso di questa intervista, concessa nella sua bella casa milanese disegnata da Ettore Sottsass, grande amico dell’ingegnere-economista. Sul tavolo ha le prime copie del suo nuovo libro, Due lingue, due vite, in cui rievoca il periodo in cui, nel 1943, la sua famiglia fu costretta a riparare in Svizzera fino al 1945.
Quanto si sente ebreo?
«Mio nonno materno si chiamava Israel. Però mia madre e mia nonna andavano a messa. Il mio sentirmi ebreo è singolare: da una parte mi riconosco in quegli avi che scapparono dalla cattolica Spagna per riparare prima in Francia e poi in Italia, ma dall’altra, come racconto nel libro, in Svizzera ho imparato il tedesco, che oggi è la mia seconda lingua. Bizzarro, no? Amare tanto la lingua di chi ti ha perseguitato». […]
«[…] Ma ho un ricordo giovanile ancora vivido: una volta, mentre frequentavo il liceo al San Giuseppe, tornando a casa un mio compagno per chiamarmi dall’altra parte della strada, mi gridò: “Ebreo!”».
FRANCO DEBENEDETTI E CARLO DE BENEDETTI
Lei reagì male?
«No, però me lo ricordo ancora bene. Si chiamava Bentivoglio».
Lei è cresciuto ad Asti: ha conosciuto la famiglia di papa Bergoglio?
«Sì, i nostri avi gli avevano anche prestato dei soldi».
Li hanno restituiti?
«Certo, e con gli interessi. Abbiamo trovato le carte, e le abbiamo mandate al Papa. Ci ha risposto con la benedizione apostolica».
Perché lei si firma Debenedetti e suo fratello Carlo, invece, De Benedetti?
«Perché lui abbia separato il cognome non lo so, ma all’anagrafe è tutto attaccato».
Carlo ha un anno in meno, ma siete diversi: lui imprenditore, lei intellettuale appassionato di economia, Wagner e letteratura tedesca. Ha mai vissuto la sua figura come ingombrante?
«No, anche perché è lui che più volte, in pubblico, mi ha definito “ingombrante”».
cesare romiti carlo de benedetti
Avete lavorato assieme alla Fiat e poi alla Olivetti.
«Alla Fiat gestivo 45 mila dipendenti da direttore del settore Componenti: ho una laurea in ingegneria. Ma venni via quando Cesare Romiti definì Carlo “un uomo senza parola”».
Perché?
«Perché, e in questo Romiti aveva le sue ragioni, Carlo prima vendette alcune aziende alla Fiat, poi si mise a farle concorrenza su quei prodotti. Ma non potevo accettare quelle parole su mio fratello. Così me ne andai».
Olivetti non esiste più. Perché? È vero che gli americani reclamavano il monopolio dei computer?
«In Europa i computer non potevano nascere e svilupparsi come poi è avvenuto negli States: mancava la domanda. In America il ruolo delle grandi aziende come la Ibm è stato fondamentale durante la Seconda guerra mondiale».
Che uomo era Agnelli?
«Molto intelligente, ma ho conosciuto meglio Umberto. Non so se nei confronti del fratello avesse un atteggiamento critico, forse sì».
Crede in Dio?
«Me lo sono chiesto negli ultimi tempi, in cui ho perso due amici cari, Furio Colombo e Gianni Vattimo».
Vattimo è stato davvero vittima di circonvenzione di incapace?
«Ma per carità, Gianni sapeva benissimo quello che faceva».
Ma Simone Caminada, compagno e assistente del filosofo, è stato condannato.
«Simone è innocente! Vattimo aveva una specie di senso di colpa per aver fatto soldi e sposò una donna solo per poter lasciare a lei i suoi risparmi. Poi conobbe Simone, divorziò e cercò in tutti i modi una soluzione per lasciare tutto a lui. Altro che circonvenzione di incapace».
Lei ha mai amato un uomo?
«Sì. Nella mia vita e in passato ho amato anche un uomo. Non l’ho mai detto a nessuno».
E questa relazione l’ha fatta soffrire o l’ha completata?
«Parliamo d’altro».
Il rapporto con suo fratello com’è stato nel corso degli anni?
«Lui era il bello della famiglia, il conquistatore. Fu Carlo a fare pressione perché mio padre acquistasse una Cinquecento campagnola, quella che aveva i sedili reclinabili».
Per le fidanzate?
«Sì. Una delle mie prime fidanzate mi disse: “Non è che non sei bello, ma...”. Come a dire che Carlo era più affascinante».
Sua moglie Barbara Ghella è mancata nel 2022.
«Ancora oggi non riesco a parlarne senza commuovermi. È stato un dolore molto forte. Un po’ come quando morì nostro figlio Pietro».
Da dove venivano Juan e Pietro?
«Sono andato in Perù a prenderli. Poi arrivarono Tommaso e Domenica. Oggi posso dire di aver avuto una vita felice, forse anche fortunata: lunga, piena di passioni, di amore, di interessi».
Il suo libro riproduce pagine di diario, biglietti di concerti, tessere dei mezzi di trasporto. Lei aveva dieci anni quando riusciste a riparare in Svizzera, che ricordo ha?
«Ricordo la fuga. Noi riuscimmo ad espatriare, e non era facile: a premere per entrare non erano solo gli ebrei, ma anche i soldati che non volevano aderire alla Repubblica di Salò. Noi passammo, la famiglia di Liliana Segre, per esempio, venne rimandata indietro».
Ha perso persone care?
«Ricordo due cugini che dovevano passare il confine dopo di noi. Furono catturati: lei morì a Buchenwald, scuoiata viva; lui impazzì, nostro padre Rodolfo lo mantenne per tutta la vita».
In Svizzera come siete stati accolti?
«Noi italiani eravamo scherzosamente chiamati “cinca”, dal numero cinque, che ricorreva nel gioco della morra. Ma ci trattarono benissimo».
Voi siete arrivati in Svizzera nel dicembre del 1943, a Pasqua già frequentava il ginnasio cantonale di Lucerna. Come ha fatto a imparare così in fretta il tedesco?
«Ad aiutarci nell’espatrio fu il colonnello svizzero Otto Meyer, che mio padre conosceva per affari. Fu sua sorella Adrienne che decise di insegnarmi il tedesco. Non era una maestra, ma aveva un metodo: niente grammatica, dieci parole al giorno. Sta di fatto che il 10 gennaio scrivevo il mio primo tema in tedesco: Ciò che vedo fuori di casa. Non riesco a capacitarmi di come sia riuscito a metterlo insieme. Da allora i libri della vita sono per me in tedesco».
Quali libri?
«Tonio Kröger di Thomas Mann è stato il libro di transizione tra l’infanzia e l’adolescenza: “Non disprezzare questo amore, Lisaweta. Dentro c’è malinconia, una pesante invidia, un poco di disprezzo e una casta felicità”. Quando dico che sono un uomo con due lingue e due vite intendo proprio questo: è stato grazie al tedesco che ho potuto vivere con consapevolezza quello che ci stava accadendo».
Perché decise di tenere un diario?
«Perché nostro padre disse che un giorno qualcuno avrebbe detto che tutto questo non era successo. Così ritagliai le prime foto dei campi di concentramento. Ma nei miei diari c’è tutto: i resoconti degli sbarchi e delle battaglie, le immagini delle strette di mano tra americani e russi sulle rive dell’Elba, le foto di Yalta. È stato grazie al tedesco che ho capito che la guerra stava finendo e quindi che il nazismo stava per essere sconfitto. È andata bene così».