VAI A MORIRE AMMAZZATO IN MESSICO – OBAMA RISPEDISCE OLTRE CONFINE 20 MILA CRIMINALI DI ORIGINI MESSICANE CHE NON PARLANO SPAGNOLO - A TIJUANA, AD ATTENDERLI CI SONO GANG, EROINA E ARMI – VIDEO
Da http://www.dailymail.co.uk/
Andreas Herrera si stava iniettando un mix di eroina e metanfetamine che si era procurato con i soldi rubati ad alcuni turisti americani. Siamo su un marciapiede di Tijuana, Messico, “Se non mi sparo una dose ogni cinque ore rischio di fare qualche cazzata - dice Andreas con accento Californiano, mentre cerca una vena buona - ma presto voglio tornare negli Stati Uniti, stare in una prigione americana è sempre meglio di vivere qui nella Zona Norte”.
Andreas è uno di dei 20,000 criminali messicani cresciuti fin da bambini negli Stati Uniti e poi deportati. Nonostante non parli una parola di spagnolo e non abbia mai vissuto in Messico, l’America ha deciso di lavarsene le mani, e lo ha rispedito in Messico.
Molti uomini come Andreas finiscono col drogarsi e col vivere nella pericolosa Zona Norte di Tijuana, a pochi metri dalla tripla recinzione che separa le loro native case americane dal Messico.
Deportati a Tijuana:
Il 90% dei deportati nella Zona Norte sono drogati, e il loro unico obiettivo è trovare il modo di passare il confine e tornare a casa prima di morire o essere ammazzati. Più della metà di tutte le droghe vendute negli Stati Uniti passano dalla regione di Tijuana, il traffico è gestito dal brutale cartello di Sinaloa che ha trasformato la zona nord della città, una volta pacifica, in un inferno a cielo aperto.
“Quando ero piccolo questo posto era un paradiso” dice Roberto Martinez, un commerciante che ha il suo negozio a pochi passi dal vicolo in cui Andrea si sta iniettando l’eroina. “Ora è tutto in mano alle gang, con violenza, droga e povertà - si lamenta - Io cerco di starne fuori, non mi interessa di quel che succede sull’altro lato della strada”.
Il degrado della Zona Norte è estremo. I segni distintivi del quartiere sono i graffiti sulle case, le auto bruciate, e i drogati che rovistano nei cassonetti per cercare cibo e plastica da vendere ai centri per il riciclo. La strada è tappezzata di siringhe usate, i cucchiaini per preparare i mix da iniettarsi sono abbandonati sui davanzali delle finestre, i negozi vendono gli snack affianco alle pipe per fumare il crack.
Le sentinelle dei cartelli della droga sono a tutti gli incroci, i gangster girano con le pistole in bella vista e gli spacciatori bisbigliano da dietro le porte sbarrate, smerciando dosi di eroina per 5 dollari al pezzo.
“Circa il 60% delle persone che vivono qui sono drogate”, dice un poliziotto, “se consideriamo solo i deportati la percentuale sale a 9 su 10”.
Da 5 anni a questa parte, più di 600,000 persone sono state deportate nello stato messicano della Baja California, di cui Tijuana è il capoluogo. Il 36% di questa gente rimarrà per sempre in Messico, pur essendo cresciuti e avendo passato gran parte della vita negli Stati Uniti.
I locali li chiamano “chicanos”, un dispregiativo per indicare gli americani-messicani. Sono rifiutati dalla comunità locale, e non possedendo i documenti per lavorare molti iniziano a drogarsi e poi a rubare.
“Non posso trovare lavoro a causa dei miei tatuaggi, quindi ho deciso di fare soldi facili con il crimine”, dice Mario Villarino, che ha lavorato per otto anni negli Stati Uniti con il cartello di Sinaloa prima di essere deportato per rapina a mano armata.
Mario dice di essersi fatto molti amici nelle prigioni federali americane, che gli avevano già trovato un lavoro prima ancora che venisse deportato a Tijuana: “Una volta in Messico ho iniziato a riscuotere debiti per il cartello, poi ho scalato la gerarchia dell’organizzazione fino a gestire il racket dei rapimentilocale”.
“Ho fatto cose terribili – ricorda Mario - non mi è mai successo niente perché il cartello controlla ogni cosa qui”. Poi, finalmente, ha deciso di entrare in un centro per disintossicarsi dalla droga ed è diventato missionario cristiano. Ora è rimasto nella Zona Norte per aiutare il flusso continuo di deportati che arrivano qua.
“Non voglio vivere qui, ma ho rovinato la vita a talmente tante persone tra rapimenti e violenze che ora voglio cercare di aggiustare un po’ le cose. Il sistema della giustizia dovrebbe considerare le conseguenze umane e sociali della deportazione, e le sofferenze che causa da una parte e dall’altra del confine”.
Dall’altra parte, le autorità messicane consigliano ai deportati di lasciare Tijuana il più presto possibile, come dice Rosario Lozada, direttore del programma messicano per la gestione dei deportati: “Mettetevi in contatto con i vostri famigliari che vivono in Messico e cercate di costruirvi una nuova vita qui. Tijuana distrugge tutti quelli che ci vivono”.