kamikaze

QUASI QUASI FACCIO IL MARTIRE - IL LIBRO “NON CHIAMATELI KAMIKAZE” SVELA LA STORIA DEI FANATICI PRONTI A IMMOLARSI - ANCHE MUSSOLINI VOLEVA I SUOI KAMIKAZE: PENSÒ AD UN CORPO SPECIALE DI COMBATTENTI DA USARE CONTRO GLI INGLESI, MA NON FUNZIONÒ - DA CATONE AI GIAPPONESI FINO ALL'ISIS: COME CAMBIA IL CONCETTO DI "SACRIFICIO"

Giuseppe Braga per “Libero Quotidiano”

 

DANIELE DELL ORCO - NON CHIAMATELI KAMIKAZE

Il 30 maggio 1972, tre uomini sbarcati da un volo AirFrance, proveniente da Roma, all'affollato aeroporto Lod di Tel Aviv, estraggono fucili d' assalto dalle custodie da violino che portano con loro e aprono il fuoco. Muoiono 26 persone, altre 78 rimangono ferite. Un terrorista muore nello scontro con le guardie, un secondo si uccide facendosi esplodere con una bomba a mano, un terzo, ferito, viene catturato.

 

SEKIGUN

Per gli israeliani è una sorpresa: per la prima volta un attacco antisionista non prevede una via di fuga per i realizzatori. In più, il Mossad si aspettava un attacco palestinese, ma non avrebbe mai pensato ai giapponesi. I tre, infatti, si chiamano Yasuyuki Yasuda, Tsuyoshi Okudaira e Kozo Okamoto. Processato, Okamoto è condannato all' ergastolo, ma viene liberato nel 1985, scambiato con alcuni prigionieri israeliani e accolto a Beirut come un eroe.

 

I tre, infatti, appartengono al Sekigun, l'Armata Rossa Giapponese, un gruppo di estremisti del Sol Levante basato in Libano che in quegli anni addestra una nuova generazione di guerriglieri islamici. Il Sekigun, oltre le tecniche di attacco, inculca loro la cosa più importante: una mistica dell'attacco suicida, che i musulmani poi adatteranno al pensiero più estremista del loro culto.

 

KAMIKAZE GIAPPONESI

Nasce così la figura dello "sahid" del jihad, che dagli anni Ottanta in poi si evolverà in forme sempre più organizzate su vari fronti islamici, fino all' 11 settembre 2001, i cui terroristi vengono chiamati "kamikaze", per accidia tutta giornalistica, ma di sicura presa sull'immaginario collettivo.

 

Il punto di contatto, per quanto suggestivo, finisce però con questo accidente storico. Che ci sia una distanza abissale fra i kamikaze giapponesi della Seconda guerra mondiale e i terroristi islamici è un fatto chiosato più volte dagli studiosi; ma quel che in più fa il prezioso saggio di Daniele Dell' Orco, “Non chiamateli kamikaze” (Giubilei Regnani, 430 pagine, 22 euro) è dare una chiarezza sistematica sia alle linee di continuità sia agli abissi storici e culturali fra i due tipi di guerrieri suicidi.

KAMIKAZE GIAPPONESE

 

A tutt'oggi, i giapponesi ci tengono a che le loro formazioni di martiri volanti, in forma abbreviata "tokkutai", non siano confusi con gli estremisti islamici, che chiamano "jibaku tero", cioè, spregevolmente, "terroristi autoesplodenti". Anzi, non amano neppure "kamikaze", essendo una parola nata dai nippo-americani di seconda generazione che parlavano male il giapponese e li definirono con il termine popolare ("Vento divino") con cui viene ricordato il tifone che nel 1281 fermò le armate mongole di Kublai Khan che puntavano verso Kyoto.

 

E non hanno torto. Il tokkutai giapponese, infatti, al contrario degli attuali terroristi auto-esplodenti islamici, mirava a obiettivi esclusivamente militari, e operava non come forma di aggressione, ma in difesa della patria, che già nel 1944 stava per capitolare. Anche la mistica è differente.

 

I giapponesi erano guidati dal senso dell'onore e del sacrificio per la loro terra, per il loro stile di vita e per l'imperatore, valori tradizionali dell' aristocrazia e del Bushido. Puro coraggio senza il miraggio di una ricompensa post mortem, che invece nella mistica suicida estremista, povera di valori culturali quanto i suoi adepti, è una molla decisiva.

SEKIGUN

Il libro di Dell' Orco è anche una cronologia organizzata delle varie forme di suicidi ideali, a partire dal mondo latino: l'estremo gesto di Seneca e di Petronio sono una invocazione alla libertà.

 

E il caso di Catone Uticense, uomo incorruttibile che si diede la morte quando capì che l'avanzata di Cesare su Utica avrebbe annientato soprattutto gli ideali per cui aveva combattuto, colpì perfino il rigidissimo Dante, che nella Divina Commedia gli concesse il Purgatorio, avendo colto il paradosso del suicidio non come annientamento di sé, ma come omaggio alla vita e alla libertà.

benito mussolini

 

Dell'Orco in due gustosi capitoletti si dedica anche ai kamikaze nazisti e italiani: i primi, nel 1945, lanciarono una disastrosa missione di caccia suicidi contro i bombardieri americani, poi tentarono fantasiosi e rabberciati progetti di bombe a razzo pilotate, ma nulla funzionò.

 

Gli italiani, invece, furono addirittura dei precursori, anche se all'italiana. Durante la guerra d'Abissinia, nel 1935 organizzarono dei corpi di piloti suicidi che si sarebbero dovuti schiantare contro le navi della Gran Bretagna nel Mediterraneo a scopo intimidatorio. Ai piloti venne promesso il loro nome iscritto su una stele commemorativa. Ma poi a Mussolini venne in mente che agli italiani, cattolici e con il Vaticano in casa, non sarebbe piaciuto, e lasciò perdere.

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