IL COVID UCCIDE IN DUE MODI: ATTACCA I POLMONI O IL PORTAFOGLI - A NAPOLI IL FOTOGRAFO UMBERTO SBRESCIA SI È IMPICCATO NEL SUO STUDIO PER GLI AFFARI AZZERATI A CAUSA DALLA PANDEMIA - L'UOMO, CHE AVEVA UN NEGOZIO DI FOTOGRAFIA NOTO CITTA', AVEVA ACCUMULATO DEI DEBITI CON IL FISCO E FORNITORI E FORSE TEMEVA LO SBLOCCO DELLE CARTELLE ESATTORIALI - HA LASCIATO UN BIGLIETTO: “CHIEDO ALLO STATO DI NON PRENDERSELA CON LA MIA FAMIGLIA”
Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera”
Il suo non era un negozio di articoli fotografici, dicevano i clienti più esperti e professionali. Era un negozio di fotografia. Perché la passione e l' amore che Umberto Sbrescia metteva nel lavoro gli avevano fatto abbattere da tempo quel confine che divide l' arte di fermare le immagini dagli strumenti necessari per riuscirci. Sbrescia quegli strumenti li vendeva da quando era un ragazzo, era passato dall' epoca della pellicola a quella del digitale riuscendo a mantenere sempre alta la competitività della sua azienda.
Ma la difficile situazione economica in cui nell' ultimo anno era finita la attività professionale lo ha consumato fino a togliergli ogni speranza nel futuro. Questo ha spiegato ai familiari nel biglietto che ha scritto prima di chiudersi nel negozio e impiccarsi. Aveva 66 anni.
Sabato era andato al lavoro regolarmente. Ma non era rientrato per pranzo e al telefono era irraggiungibile. Così a casa si sono preoccupati e hanno avvertito la polizia. Che ha trovato il corpo e quel biglietto in cui l' uomo invita i parenti a lasciare Napoli e, quasi con ingenuità - l' ingenuità della disperazione - chiede allo Stato di non rivalersi su di loro per ciò che lui ha lasciato in sospeso. E cioè debiti, spiega. Accumulati sia con il fisco che con interlocutori privati, probabilmente fornitori con i quali aveva preso impegni che poi non avrà potuto onorare. Forse temeva anche lo sblocco delle cartelle esattoriali e l' arrivo di richieste di pagamenti alle quali non avrebbe potuto far fronte.
Certamente la sua attività, iniziata con il padre nel 1958, aveva subito gravi danni a causa della pandemia. Lo storico negozio nei pressi di piazza Garibaldi, da sempre punto di riferimento di generazioni di fotografi, sia specialisti di cerimonie che fotoreporter, era ormai sempre meno frequentato. Rarissimi i set da allestire e i professionisti in grado di rinnovare le attrezzature. La stessa Accademia di Belle Arti, di cui era fornitore abituale, aveva ridotto sensibilmente le richieste per mancanza di attività.
Il lavoro scarseggiava, e per Umberto era diventato sempre più difficile mantenersi ai suoi abituali livelli. Nel suo settore un magazzino fornito costa, e se non arrivano ordini va tutto sottosopra. Poi lui non era mai stato attaccato al denaro, non si era arricchito, pure se lavorava da tanti anni.
Molti dei suoi clienti erano anche suoi amici, e quindi se un fotografo non aveva la possibilità di comprare in contanti una macchina, Umberto rateizzava senza problemi, e soprattutto senza far fare finanziamenti e pagare interessi. Allo stesso modo aiutava, fornendo gratuitamente muletti, chi aveva l' attrezzatura ferma per un guasto («Devo metterti in condizione di lavorare», diceva sorridendo).
Se ne ricorda bene Vittorio Guida, forse il più internazionale dei fotografi napoletani.
Che sulla sua pagina Facebook saluta l' amico scomparso ripensando a quando «avevo bisogno di un' ottica per fare un lavoro ma non avevo i soldi per comprarla e tu me la desti per una settimana e te la pagai dopo, a lavoro consegnato. Ma era un altro mondo e tu eri diverso». Tanto diverso dagli altri da fare una cosa che nessuno avrebbe fatto. La racconta Gianni Fiorito, a lungo fotoreporter e oggi quotatissimo fotografo di set cinematografici: «La notte del 23 novembre del 1980, la notte del terremoto, Umberto aprì il negozio per permetterci di fare rifornimento di materiale e poter documentare quella immane tragedia».