ITALIA ADDIO: DOPO IL CASO KERCHER GLI STUDENTI AMERICANI SONO LA METÀ A PERUGIA

Pierangelo Sapegno per "La Stampa"

A ben guardare, Jason sembra davvero l'unico americano, capelli radi e una maglietta del Mississippi. Non sa se c'entra quello che aveva scritto Sophie Egan sul New York Times, che «prima eravamo una attrazione, e adesso siamo diventati degli immigrati». O se è la paura per la «palude di un sistema legale che non funziona», come qualcun altro ha descritto la nostra Giustizia. Ne hanno scritte tante, sulla storia di Amanda. Ma è così difficile capire quel che è rimasto, dopo tutte quelle parole.

Rifacendo le stradine che tagliano giù per il dorso della città alta, è come ripassare sui luoghi che hanno fatto la vita di Perugia per 4 lunghi anni, scendendo verso la casa dove uccisero Meredith, via della Pergola e i tornanti più in basso, e poi l'Università e le facce, tutte raccolte insieme in questo limbo autunnale, ricoperto da velenosi ritratti sul nostro sistema «barbaro e medioevale».

È per questo che sono andati via? Jason dice che i suoi amici sono americani, ma sono sempre meno. Appena arrivi, sono tutti cinesi o giapponesi, che per noi sono quasi uguali, e se poi glielo chiedi si chiamano Akiko, Chikuma, Junko e Kaede. Loro di Amanda non sanno niente. Piazza Fortebraccio, Università degli stranieri.

I numeri dicono che dagli Stati Uniti le iscrizioni sono quasi dimezzate, da quel primo novembre del 2007. E all'Istituto di alta formazione per gli studenti americani spiegano che sì, è vero, ma che «molto è dipeso dalla crisi economica». Non è il rifiuto dell'Italia. Certo, ammette Ray Cascio, che invece ci è venuto in vacanza da Washington, con la famiglia, una settimana tra Roma e Firenze, e un salto nella città del delitto, «Amanda non vi ha fatto bene».

Racconta Jason che quando la Knox è tornata in America, la cosa che più colpiva l'opinione pubblica delle sue interviste, era la mancanza di correttezza, «il modo in cui giudici, poliziotti e giornalisti la potessero descrivere impunemente come una puttana, senza assumersene la minima responsabilità». Giulia Alamia, 29 anni e doppia cittadinanza, madre americana e padre siciliano, ha fatto dei reportage su questa vicenda per la Cbs e la Nbc e pure per i giornali inglesi come il Sun.

E lei dice che ci sono alcune cose che all'inizio gli americani non capivano del nostro sistema, ma che poi hanno finito per apprezzare: «Negli States i tre gradi di giudizio non esistono, e l'accusa non può mai fare ricorso. Se un giudice ti assolve, è finita lì. Mi sono dannata l'anima a spiegarglielo. Gli dicevo, qui è fondato tutto sul diritto romano. Loro storcevano il naso, ma alla fine ne hanno capito il lato buono: forse è più facile riparare a un errore. Negli Stati Uniti, invece, ci sono molti più giudici e i processi sono più veloci».

È la lentezza del nostro sistema che angoscia, i 4 anni di carcere inflitti ad Amanda prima di una assoluzione. Poi c'è stato il problema dell'informazione locale, troppo appiattita sugli inquirenti: «Gli americani sono stati costretti a difendere l'imputato, venendo qui, a cercare notizie altrove. Era l'unico spazio informativo rimasto libero. Ma va detto che anche un cronista italiano, Meo Ponte, aveva fatto lo stesso lavoro, molto seriamente, in mezzo a un mucchio di difficoltà. Non bisogna mai fare di tutte le erbe un fascio».

Jason racconta che una volta una sua amica, Autumn - «proprio così, si chiama autunno» -, guardando la televisione urlò che questo paese era irrecuperabile. «Ma era ubriaca». Ride. E che cosa guardava? «La tragedia della Costa Concordia». Secondo Barbie Nadeau, di Newsweek, sono quelli i temi che interessano di più gli americani, «la Costa Concordia e Papa Francesco. Amanda ha stufato, come Berlusconi, sono personaggi troppo uguali a se stessi».

E alla fine, comunque, la storia di Perugia non ha cambiato l'immagine del nostro Paese. «Ne ha marcato alcuni aspetti». Sul web è diverso, perché quello è un mondo a suo modo più violento. Barbie ha scritto un libro su Amanda, «Angel face», che in America è stato letto come un ritratto molto critico nei confronti della ragazza di Seattle: «E per questo ho ricevuto minacce parecchio pesanti via Internet. Il fatto è che quelli che si appassionano a questo caso, sono una minoranza, ma rappresentano un po' la pancia del Paese».

E dall'altra parte dell'oceano leggevano sul NY Times le confessioni di Sophie Egan, studentessa di 20 anni, che raccontava d'essere trattata come una marziana, o le cronache sugli errori dell'inchiesta riportate dal Seattle Times. Alla fine, per forza, qualcosa è rimasto. Le parole non passano mai invano.

 

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