emily harrington

PORTA IN ALTO LA MANO, SCALA IL TUO CAPITANO – L’IMPRESA DELLA 34ENNE EMILY HARRINGTON, LA PRIMA DONNA A SCALARE A MANI NUDE IN 24 ORE “EL CAPITAN”, IL TOTEM DEL PARCO YOSEMITE, IN CALIFORNIA: UN MONOLITE DI MILLE METRI CHE L’ANNO SCORSO L’HA RESPINTA BRUSCAMENTE FACENDOLA SCIVOLARE E MANDANDOLA ALL’OSPEDALE – QUESTA VOLTA IL PASSAGGIO PIÙ DIFFICILE VERSO MEZZOGIORNO, QUANDO LE MANI SUDATE LE HANNO FATTO MANCARE LA PRESA E… VIDEO

 

Gaia Piccardi per "www.corriere.it"

 

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El Capitan non è un tipo facile. Mille metri di vertigine verticale piantati come un totem nel cuore del parco nazionale di Yosemite (California), venati da settanta vie di arrampicata: la sfida di alpinismo estremo più popolare del mondo, la palestra di roccia su cui qualsiasi ragno vorrebbe tessere la sua tela.

 

Emily era già stata respinta brutalmente dal Capitano nel novembre dell’anno scorso. «È scivolata, l’ho vista volare via — ha raccontato l’amico Alex Honnold, che era con lei —. Ha sbattuto la schiena contro la pietra, l’imbragatura ha tenuto. Quando ho realizzato che soffriva, sono stato contento: significa che non aveva perso sensibilità».

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La scalata durata un giorno

Rimessi insieme i pezzi, mentre le foto dei suoi lividi facevano il giro del web, Emily Harrington, 34 anni, americana di Boulder (Colorado), una vita ad accarezzare con le dita le asperità delle montagne, ci ha riprovato. E il 4 novembre scorso, forse per premiare tanta perseveranza, il Capitano l’ha lasciata passare: in 21 ore, 13 minuti e 51 secondi Miss Free Climbing è diventata la prima donna a scalare a mani nude in 24 ore il monolite granitico protagonista dello splendido documentario «The Dawn Wall», su Netflix, che racconta l’ossessione dello scalatore Tommy Caldwell, sei anni di studio e di tentativi per domare (con un dito in meno amputato in un incidente domestico) dawn wall, la via ritenuta impercorribile. Il suo modo di tenere impegnata la testa dopo una delusione d’amore.

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Amore ad alta quota

Emily ha imboccato la via golden gateall’1,34 del mattino assieme al fidanzato, la guida dell’Everest Adrian Ballinger, e ad Alex Honnold, l’amico che l’aveva assistita durante l’incidente, anch’egli provetto arrampicatore, capace di scalare nel 2017 El Capitan in solitaria e senza assistenza. Era il quarto tentativo di sedurre la forza di gravità e il fascino brutale di una parete prevalentemente liscia e senza appigli, che prende il nome dal capo di una tribù di indiani nativi. Il tempo medio per salire in cima a El Cap va dai quattro ai sei giorni.

 

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«Non ero mai stata così pronta — ha raccontato Emily dopo l’impresa — e durante la salita mi sono passati per la testa mille pensieri. Questa montagna rappresenta tutto ciò per cui ho lavorato nella mia vita». Il passaggio più difficile verso mezzogiorno, quando le dita delle mani sudate le hanno fatto mancare la presa. Si è riposata mezzora, ha riprovato. È ricaduta, sbattendo la testa: «All’improvviso c’era sangue dappertutto. E ho rivisto il film di un anno fa». Dopo un bendaggio di fortuna, Emily è ripartita verso la vetta.

 

Arrampicata olimpica

Per capire cosa significhi per un arrampicatore la sfida di Emily Harrington, ci viene in aiuto Ludovico Fossali, 23enne di Trento, il primo azzurro qualificato per i Giochi di Tokyo nell’arrampicata sportiva, nuova disciplina olimpica. Il fisico ideale per tentare la missione impossibile di domare El Cap, innanzitutto: «Forte e tornito dal bacino in su, quasi esile dalla vita in giù: facendo leva sulle braccia, meno muscoli hai nelle gambe e meno peso hai da tirare su.

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Essere elastici, inoltre, è fondamentale per riposare in parete, dove è importante restare paralleli alla roccia. Meno angoli, meno fatica». Le dita, in questo complesso connubio tra corpo e mente («Non riesco nemmeno a immaginare cosa voglia dire restare sotto pressione per oltre ventuno ore...»), sono l’architrave del tutto: «Devono essere sufficientemente sensibili da afferrare prese minuscole».

 

Ci si allena sui «travi», strutture di legno che simulano asperità di 15 millimetri, sulle quali si resta in sospensione per allenare presa e resistenza. E poi le mani. «Secche. Più secche sono, meglio è». La crema idratante è la kriptonite dello scalatore. «Usiamo il magnesio per asciugarle. Certo la pelle secca poi si rompe, ma alla fine si crea il callo che proteggiamo con apposito scotch, per renderlo ancora più duro».

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Pasti in quota

In parete ci si idrata con acqua e alimenta con gel proteici e barrette. Piccoli spuntini frequenti, per non perdere mai energia. «Impossibile portare su pasti cucinati», conferma Ludovico, che l’anno prossimo a Tokyo proverà a vincere una storica medaglia per l’Italia. «I muscoli fanno la differenza, ma l’arrampicata è una delle poche discipline in cui la distanza tra uomo e donna si accorcia». Lo dimostra Emily che alle 10,30 di sera, prima di ridiscendere al campo base, ha stappato una bottiglia di champagne in vetta. Alla salute del Cap.

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