SCACCIA IL TESORO – ABBIAMO IL PIÙ GRANDE PATRIMONIO CULTURALI AL MONDO MA LO SCHIFIAMO: IN UN ANNO IL LOUVRE HA LO STESSO NUMERO DI VISITATORI DI TUTTI I MUSEI ITALIANI!

Sara Frangini, Vincenzo Iurillo e Mario Molinari per il "Fatto quotidiano"

L'Italia è terra di cultura. E di bellezze. I musei dovrebbero esserne i custodi elettivi. Eppure le visite complessive sono sempre più rarefatte. Quelle nei musei in senso stretto, in un anno, sono paragonabili al solo Louvre di Parigi. Rispetto a dieci anni fa il numero è addirittura diminuito.

Se non ci fossero i parchi archeologici, Foro romano e Pompei, il saldo sarebbe ancora peggiore. Si salvano i circuiti museali, le strutture pensate e organizzate. Segno che con una politica mirata si può crescere. E anche guadagnare. Ma andare per musei è ancora una fatica, una delusione. A volte una gimkana. Come quella che questa settimana ha fatto il nostro "signor Rossi".

A Pompei piove. Piove ininterrottamente. E si legge il terrore negli occhi. Della bigliettaia, delle guide turistiche, dei turisti in k-way giallo che parlano lingue esotiche. Negli Scavi si respira la paura che un patrimonio archeologico senza uguali possa continuare a sfarinarsi sotto l'acqua e il vento dei mesi brutti. Novembre 2013, piove sotto un cielo chiuso da nuvole grigie, fa un freddo boia e di conseguenza non c'è quasi nessuno.

Un gruppo di giapponesi, qualche spagnolo, una scolaresca. Non c'è calca, non c'è fila. C'è, ma quello è indelebile, il ricordo del novembre di tre anni fa, quando al termine di un paio di giorni di pioggia crollò con grande rumore la Domus dei Gladiatori e con essa la credibilità del nostro paese nel mondo, lasciata in balìa degli estri del ministro poeta Sandro Bondi.

Una ferita mai cicatrizzata, la paura è entrata nel dna del luogo. Da allora, alcuni ulteriori piccoli cedimenti di siti minori e chiusi al pubblico, il Grande Progetto Pompei da 105 milioni di euro per restaurare e mettere in sicurezza decine di domus entro il 2015, due nuovi governi e due ispezioni della Dia a caccia di infiltrazioni camorristiche negli appalti.

LA PIOGGIA DI POMPEI
Piove. Piove ininterrottamente. E si forma, e scorre forte, un fiumiciattolo d'acqua sulla salita del sentiero d'ingresso degli Scavi. Costellati qua e là da transenne, cartelli di divieto e di lavori in corso. Precarietà. Disagio. Senso di smarrimento. Il gazebo delle guide turistiche, all'ingresso di Villa dei Misteri, è vuoto.

Non bisogna meravigliarsi. È bassissima stagione. Il trenino della Circumvesuviana, che nei mesi caldi trasporta verso Pompei migliaia di turisti provenienti dagli alberghi della costiera sorrentina e amalfitana, è praticamente vuoto. Non è un veicolo affidabile al cento per cento. Il ministro Massimo Bray, che da Napoli lo utilizzò in incognito il giorno dopo la nomina proprio per recarsi agli Scavi, dovette abbandonarlo in fretta e furia a causa di un'avaria. E farsi scortare per raggiungere la destinazione.

Piove. Piove ininterrottamente. Una guida racconta a quattro turisti italiani che nella Pompei antica non esistevano le fogne. L'Anfiteatro è una pozza. Sbucano due cani enormi, che si dissetano nelle pozzanghere mentre un professore dall'accento emiliano tiene la sua lezione a una trentina di studenti. I cani sembrano senza padrone. Viene in mente che grazie al progetto Cave canem, finanziato dal ministero durante la stagione allegra dei commissariati straordinari, prima che un'inchiesta della Procura di Torre Annunziata svelasse l'andazzo, fu commissionato un censimento dei randagi ospiti negli Scavi, finalizzato all'adozione degli animali. Risultato: 55 randagi censiti, 26 adottati e oltre 100 mila euro spesi.

Quasi 4.000 euro di soldi pubblici per ogni cane affidato. I randagi nel frattempo hanno continuato ad azzannare i turisti: nel maggio orribile del 2011, furono morsi il custode, una signora veneta, un accompagnatore turistico tedesco.

Piove. Piove ininterrottamente. Ci sono cartelli di lavori in corso che spiegano bene come vanno le cose. L'allestimento espositivo della Palestra Grande è iniziato nel febbraio 2010 e doveva concludersi "il 19 dicembre 2010". Un residuo del disciolto commissariato retto dall'indagato Marcello Fiori. Piove. Piove ininterrottamente. All'uscita si ascolta una guida dai capelli bianchi cantare una vecchia canzone napoletana: "Torna, sta casa aspetta ‘a te. Torna, che smania ‘e te vedè". Dietro di noi, l'ultima notizia: un tetto di circa 10 metri quadrati, in travi di legno e tegole di terracotta, all'interno della Casa dell'Atrio Corinzio, è crollato. Forse, si dice, a causa delle forti piogge.

LA FILA DEGLI UFFIZI
Anche gli Uffizi sono vuoti. Ma solo di cittadini fiorentini. I capolavori li trovi uno dietro l'altro, senza sosta: rarità, opere preziose, pezzi unici. E capisci perché le sale e i corridoi sono affollati da visitatori che arrivano da ogni angolo del mondo. Eppure manca qualcosa, ed è un'assenza pesante. Non c'è l'ombra di un fiorentino, nemmeno uno. Non è un caso se solo dopo quindici sale, si riesca a trovare qualcuno che parli in italiano.

Tra visitatori irrequieti, avidi di bellezza, sale piene zeppe di opere meravigliose, gli Uffizi raccontano molto altro. Svelano una meraviglia di Firenze vissuta solo da chi abita la città per pochi giorni, o per una manciata di ore: turisti stranieri, scolaresche rumorose, gruppi che sembrano reduci da un pellegrinaggio.

Il museo è lo specchio di chi affolla il centro, di chi riempie le strade che un tempo erano dei fiorentini: gli stessi che oggi si tengono a debita distanza. Proprio come i monumenti e le piazze della loro città, gli Uffizi sono a due passi da loro, che scelgono di evitare quel posto caotico ed estraneo alla vita di ogni giorno. Dover pagare l'ingresso non aiuta. Anzi, non piace affatto.

E piace ancora meno stare ore in coda per sborsare 11 euro per un biglietto che, da giugno al prossimo gennaio (per otto mesi filati), comprende anche la mostra dedicata al Gran principe Ferdinando de' Medici. Bellissima, suggestiva. Ma obbligatoria, anche per chi non desidera vederla. A ben vedere, poi, non aiuta neppure il fatto di trovarsi davanti un bel po' di sale - dalla 19 alla 23 - chiuse per lavori.

Così, agli Uffizi, si trovano solo stranieri o quasi. Alcuni hanno lo sguardo pieno della meraviglia e dell'impazienza di chi è venuto da lontano, smaniosi di scoprire se davvero la magia dell'arte di cui hanno letto è racchiusa lì dentro, altri sono distratti dai cellulari, aspettano il loro turno per entrare con gli occhi incollati alla guida o tentano, come un gruppo di francesi, di ripiegare un'ingombrante carta della città. Dietro di loro si fa notare una coppia chiassosa.

Due americani, che si muovono con il passo sicuro dei turisti navigati fino a raggiungere l'ingresso: lei agguanta la macchinafotografica, sfodera un sorriso da cartolina e immortala l'arrivo. L'espressione è eloquente, ha raggiunto la meta. Ora potrà dire: "Sono stata qui".

È una rarità che gli Uffizi non siano affollati. Accade poche volte, mai nei weekend e solo in inverno. Nei giorni di festa, o nei fine settimana di Primavera, dopo ore e ore di fila si riesce ad accedere alle sale in cui, tra la calca e l'afa, si scorgono quadri dei quali è difficilissimo godere a pieno.

Per qualcuno, come la giovane francese che incontriamo davanti alla Tribuna, nel primo dei tre corridoi che costituiscono la storica forma a U dell'edificio, che ci sia una persona o cento non fa alcuna differenza. Alla turista interessano solo le foto che riuscirà a rubare al museo beffando i controlli. Si guarda attorno di continuo, e se nessuno la osserva estrae il tablet e scatta. "Lo fanno in tanti - ci spiega un'addetta alla sorveglianza - e se interveniamo sa che succede ? Niente. Cambiano sala e fotografano altri quadri".

Si parla dell'ipotesi di affidamento delle visite al Corridoio Vasariano alle guide private. Il Corridoio dovrebbe aprire in via sperimentale a gennaio, offrendo 12 tour al giorno per gruppi fino a 25 persone. Ma, a quanto trapela, a prezzi elevati. Le tariffe al vaglio parlano chiaro: dai 34 euro (biglietto intero) a 25 (per quello ridotto).

Fino a 16 euro per chi ha l'ingresso gratuito per gli Uffizi ma che, nel caso scelga di vedere il Corridoio Vasariano, si troverà a sostenere i costi per le prenotazioni e per le guide. Molti lavoratori del museo, davanti a questa prospettiva, storcono il naso. Perché, spiega un dipendente, "è in discussione la fruibilità dell'arte come bene della collettività".

Così, mentre "in questi giorni - aggiunge - è stato aperto un confronto con la Soprintendenza per valutare la possibilità della gestione delle visite da parte del personale interno" crescono l'insofferenza e "i timori che un affidamento esterno faccia lievitare i costi". "Per non parlare - incalza - della distanza che si creerebbe tra gli Uffizi e chi vive la città: già di fiorentini qui ne vengono pochissimi". Non ci sono dubbi: il rischio che aumenti quella frattura che già c'è, ed è palpabile, tra gli abitanti di Firenze e il loro museo.

LA PREISTORIA A ROMA SA DI MUFFA
La prima impressione, entrando nel museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma, è quella dell'imponenza. Straripante ingresso in stile fascista, come del resto l'intero quartiere dell'Eur in cui il museo è situato. Di fronte c'è quello delle Arti e tradizioni popolari, accanto quello dell'Alto Medioevo. Poco più avanti si trova il Planetario, meta di genitori con bambini al seguito.

Le strade, di sabato pomeriggio , sono deserte, il buio dell'autunno romano restituisce silenzio e malinconia. Un'offerta museale di tale portata farebbe pensare a luci sgargianti, una buona offerta ristoro (non c'è un bar aperto), percorsi guidati, trasporti efficaci. Qui, però, l'idea del "circuito museale" non sembra essere arrivata.

Eppure, davanti al Pigorini c'è folla. Forse i romani amano la Preistoria. Ma alla biglietteria non c'è nessuno, e questo sembra strano. La turista giapponese fa lo sforzo di parlare inglese per avere informazioni all'impiegato. "Non parla italiano?" le chiede quello con fare annoiato. Lei non capisce, continua, impegnata, con il suo inglese balbettante ma la risposta è secca: "Siamo in Italia, si parla italiano". Una volta salite le grandi scale che portano al primo piano, la zona etnografica, si scopre il segreto di tanta ressa. C'è una Conferenza-spettacolo di danza classica indiana Bharata Natyam. L'affluenza deve aver sorpreso l'organizzazione perché il pubblico è seduto sulle scale che portano al secondo piano, quello dell'esposizione preistorica.

Non si può passare, non c'è nessun addetto (e per tutta la visita non incontreremo nessuno), ripieghiamo sull'ascensore. Al secondo piano è di nuovo deserto. L'odore dominante è quello della muffa. Le sale sono buie, gli scavi archeologici esposti non hanno nessuna protezione.

Sorpresa amara, poi, quando si arriva al pezzo forte (per chi ha portato i bambini): la catena evolutiva dell'uomo ricostruita con le varie strutture scheletriche. Lo spazio è vuoto, i pezzi sono in riparazione, i bambini restano delusi. Si consoleranno con le stanze etnografiche dedicata all'Africa o all'America. Ma è già tardi. Usciamo nel buio dell'Eur, lo spettacolo indiano è finito e resta il silenzio del sabato sera. Di fronte al Planetario solo cartacce e lattine abbandonate. Nessuno sospetta che questo angolo di Roma potrebbe trasformarsi in un'offerta culturale davvero ampia. Basterebbe un po' di inventiva. E magari rispondere in inglese al giapponese di turno.

I GENOVESI DIMENTICANO I LORO TESORI
"Andiamo a vedere una bella mostra?", si chiede un genovese. Magari quella splendida di Edvard Munch, proprio in città, a Palazzo Ducale. Altri puntano verso Roma, addirittura c'è chi immagina un weekend a Londra. Poi, magari per caso, dopo decenni che mancavi, ti capita di entrare dentro Palazzo Rosso, uno dei grandi musei cittadini.

Non ci andavi dai tempi del liceo, quando avevi altro cui pensare che i quadri. Ma appena entrato resti a bocca aperta: Van Dych, Durer, Guercino, Reni, Veronese, Grechetto, Palma il Vecchio, Carracci. Roba che faresti mille chilometri per andare a vederla e invece ti dimentichi ti avere in casa. Ecco la sorte di tanti musei italiani. Li abbiamo a portata di mano e ce ne dimentichiamo.

Palazzo Rosso - ben conservato, ben tenuto - conta 91mila visitatori l'anno. Accanto c'è Palazzo Bianco, altra meraviglia in quella che è stata definita la strada più bella del mondo: Strada Nuova, oggi via Garibaldi. In gran parte vengono da fuori (molti francesi). Altri gioielli genovesi, con direttori di prim'ordine, sono frequentati soprattutto dalle scuole. Se va bene.

Il Chiossone, uno dei maggiori per l'arte orientale, arriva a 16.100 visitatori, i musei di Nervi con i Guttuso e i Boldini a 18.000, Castello d'Albertis tocca i 15.100 e Villa Croce 13.000. Musei di interesse nazionale, in tanti quartieri della città. Spesso appena ristrutturati come quelli di Nervi. Eppure capitano giorni che ti si stringe il cuore a entrare: quattro, cinque visitatori in una giornata. Tanti genovesi - ma accade in tutte le città - ci vivono accanto e non conoscono il patrimonio che hanno. Pensare che alcuni sono perfino gratis. Basta entrare. E guardare.

 

 

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