SCOMPARSO IN SIRIA L’INVIATO DE “LA STAMPA”

1. SCOMPARSO DA GIORNI IN SIRIA L'INVIATO DE LA STAMPA DOMENICO QUIRICO
Mario Calabresi per "La Stampa"

Da venti giorni abbiamo perso i contatti con il nostro inviato Domenico Quirico, in Siria per una serie di reportage dalla zona di Homs.

Due settimane di ricerche, fatte in modo silenzioso e riservato ma in ogni direzione, coordinate dall'Unità di crisi della Farnesina, non hanno dato sinora alcun risultato concreto e così abbiamo condiviso con le autorità italiane e la famiglia la decisione di rendere pubblica la sua scomparsa, sperando di allargare il numero delle persone che potrebbero aiutarci ad avere informazioni.

Domenico è entrato in Siria il 6 aprile, attraverso il confine libanese, diretto verso Homs, area calda dei combattimenti, per poi spingersi, se ce ne fosse stata la possibilità, fino alla periferia di Damasco.

Era partito dall'Italia il 5 aprile per Beirut, dove era rimasto una giornata in attesa che i suoi contatti si materializzassero: la mattina di sabato 6 aprile gli abbiamo telefonato per avvisarlo del rapimento dei colleghi della Rai nella zona di Idlib. Ci ha spiegato che il suo percorso sarebbe stato completamente diverso e che ci avrebbe richiamato una volta passato il confine. Nel pomeriggio, alle 18:10, ha mandato un sms con cui annunciava al responsabile Esteri de La Stampa di essere in territorio siriano.

Due giorni dopo, lunedì 8, ha prima mandato un messaggio alla moglie Giulietta, per confermarle che era in Siria e che era tutto ok, poi verso sera l'ha chiamata a casa. La linea era molto disturbata, ha spiegato che di lì a poco il cellulare non avrebbe preso più e che le persone con cui viaggiava gli avevano chiesto di non utilizzare il satellitare, che sarebbe stato quindi in silenzio per qualche giorno ma di non preoccuparsi.

Martedì 9 ha ancora mandato un sms a un collega della Rai nel quale diceva di essere sulla strada per Homs. E' stato questo l'ultimo contatto diretto avuto con Domenico.

Prima di partire ci aveva avvisato che non avrebbe scritto niente mentre era in Siria e che per circa una settimana sarebbe rimasto in silenzio: la copertura della rete dei cellulari è saltata in molte zone dell'area di Homs e usare il satellitare non è prudente perché così si segnala la propria presenza.

Siamo abituati ai silenzi di Domenico, che si ripetono quasi in ogni suo viaggio, tanto che l'ultima volta che era stato in Mali non lo avevamo sentito per sei giorni. Fanno parte del suo modo di muoversi e lavorare: ha sempre sostenuto che le tecnologie e le comunicazioni sono il miglior modo per farsi notare e mettersi in pericolo. La sua strategia è di viaggiare da solo, tenendo un profilo bassissimo e mimetizzandosi tra le popolazioni, al punto di condividere con un gruppo di profughi il rischio della traversata in barcone tra la Tunisia e Lampedusa.

D'accordo con la famiglia dopo sei giorni di silenzio, lunedì 15 aprile, abbiamo avvisato l'Unità di Crisi della Farnesina del viaggio di Quirico e del suo silenzio. Il giorno dopo abbiamo fornito ogni elemento sui suoi spostamenti per far partire le ricerche. Ricerche che non si sono mai interrotte, e di cui apprezziamo gli sforzi fatti in ogni direzione, ma dal terreno fino ad oggi non sono arrivati segnali di alcun tipo.

La scelta di non dare notizia e non pubblicizzare la scomparsa è stata presa, in accordo con le autorità italiane, per evitare di attrarre l'attenzione su Domenico in una zona ad alto rischio di sequestri. Nell'ipotesi che potesse essere in una situazione di difficoltà e cercasse di uscire, ci è stato spiegato che era bene non dare visibilità alla sua presenza.

La grande angoscia delle sua famiglia e di tutti noi, colleghi e amici di Domenico, finora è stata tenuta riservata e anche gli amici che ha nelle altre testate hanno rispettato questo silenzio che speravamo favorisse una soluzione. Purtroppo non è stato così e per questo abbiamo ora deciso di rendere pubblica la sua scomparsa.

Domenico Quirico, 62 anni, è uno dei giornalisti italiani più seri e preparati nell'affrontare situazioni a rischio. Negli ultimi anni ha raccontato il Sudan, il Darfur, la carestia e i campi profughi nel Corno d'Africa, l'esercito del signore in Uganda, ha seguito interamente le primavere arabe, dalla Tunisia all'Egitto, è stato più volte in Libia per testimoniare la fine del regime di Gheddafi. Nell'agosto 2011 nel tentativo di arrivare a Tripoli veniva rapito insieme ai colleghi del Corriere della Sera Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina e di Avvenire Claudio Monici. Nel sequestro veniva ucciso il loro autista e solo dopo due giorni drammatici venivano liberati.

Nell'ultimo anno ha coperto per tre volte la guerra in Mali, è stato in Somalia e ora per la quarta volta è in Siria. Nei suoi primi due viaggi siriani era stato ad Aleppo, dove aveva raccontato i bombardamenti e la prima fase della rivolta. Nell'ultimo aveva invece seguito i ribelli spingendosi fino nella zona di Idlib.

Ha voluto tornare di nuovo per raccontare l'evoluzione di un conflitto che si è allontanato troppo dalle prime pagine dei giornali e che - ci ripeteva - nonostante i suoi orrori non scuote la società civile occidentale.

La cifra del giornalismo di Domenico Quirico è una tensione fortissima alla testimonianza, che deve essere sempre diretta e documentata. Domenico non ha mai accettato di raccontare stando al di qua del confine, attraverso le voci dei profughi o dei fuoriusciti, lo trova eticamente inaccettabile. Ci ha sempre ripetuto che bisogna stare dentro i fatti e che un bombardamento lo si può raccontare solo se si è sotto le bombe insieme alle popolazioni, con cui bisogna condividere emozioni e destini.

Per questo è partito ancora una volta: per onorare il mestiere che ama.

Noi restiamo tenacemente attaccati alla speranza di avere al più presto sue notizie, di continuare ad ascoltare i suoi racconti, e la sua capacità di analisi mai ideologica o faziosa. Lo aspettiamo insieme alla moglie, alle figlie, ai suoi amici e ai nostri lettori.
Per segnalare questa nostra attesa abbiamo deciso di mettere sulla testata del giornale un fiocchetto giallo, come fanno le famiglie che attendono il ritorno di una persona cara di cui non si hanno notizie.


2. QUIRICO, BONINO SEGUE PERSONALMENTE IL CASO
(ANSA) - "Il ministro Bonino segue personalmente il caso" e "la Farnesina sta operando attraverso l'Unità di Crisi e in raccordo con tutte le strutture dello Stato interessate". Lo riferiscono all'ANSA fonti della Farnesina interpellate in relazione alla notizia della scomparsa in Siria del giornalista de 'La Stampa' Domenico Quirico.

Le stesse fonti confermano che "il Ministero è da giorni impegnato, in costante contatto con il quotidiano torinese e con la famiglia del giornalista, per chiarire la vicenda".


3. QUEL LAVORO COL TACCUINO CHE BATTE LA TECNOLOGIA
Mimmo Cándito per "La Stampa"

Quando te ne vai a raccontare una guerra, l'imprevisto se ne sta acquattato nel fondo del tuo borsone; acquattato che neanche lo vedi, sepolto sotto la massa confusa d'una camicia ripiegata ancora fresca, mutande, calze, due farmaci di pronto intervento, un rotolo di carta igienica, il vecchio romanzo che devi sempre finire, più tutti i fili e i cavi del tuo lavoro oggi elettronico. Ma è solo una ipocrisia che tu non lo veda, perché, quell'imprevisto, tu non vuoi proprio vederlo. E comunque sai di quel fantasma che sotto si nasconde e aspetta.

Questo fondo oscuro del borsone, tu non lo guardi mai, e non è per paura, non certo per incoscienza; è soltanto il pudore di poter mancare un dovere che senti la natura del tuo lavoro, che sai sta nella tua capacità di misurarti con una realtà ambigua, menzognera, senza identità credibile, lungo una ricerca che si spinge - deve spingersi - fino a una linea d'ombra la cui geometria mai conosci prima. Né può conoscerla davvero chi su quel terreno con te non ci sta.

Il reporter di guerra è un mestiere che muore, soffocato e umiliato dalla vanagloria delle nuove tecnologie e dalla egemonia riduttiva della televisione. Muore, ma ancora non è morto.

È come il giornalismo, il vecchio giornalismo, che tira le cuoia però costruendo con mille affanni e mille paure una identità nuova, fatta sì di velocizzazione cieca, d'immediatezza cialtrona, di spettacolarizzazione canaglia, ma anche di forme nuove di produzione dell'informazione, che scoprono le fonti citizen, i blog, i chat, quello sterminato pulviscolo sminuzzato ma reale di notizie, spunti, chiacchiere, intuizioni, illuminazioni, che aprono il tessuto indistinto della quotidianità e offrono ai media uno straordinario territorio di conoscenze.

Il punto di rottura sta nell'equilibrio obbligato e però faticoso tra questa nuova prateria - tutta virtuale - che la Rete spalanca alle scorribande del lavoro di redazione e la realtà concreta, sfuggente, spesso ingannevole e imbellettata - ma tutta materiale - che invece il giornalismo deve indagare e rivelare con il proprio lavoro testimoniale sul campo, del cronista che fruga le strade della città come del reporter che s'intrufola a spalle basse nelle terre lontane insanguinate da morte e distruzione. Ed è questo il lavoro che fa da sempre Domenico Quirico.

La tentazione di cedere alla comoda fascinazione dei dati e dei link che si offrono credibili sullo schermo del computer è forte, spesso irresistibile; l'estetica dell'apparenza si fa norma etica, la rapidità elettronica della comunicazione diventa l'orizzonte che sostituisce la qualità identitaria dell'informazione, e vero e verosimile si fanno una melassa indifferente. Il lavoro sul campo - che Quirico ha fatto per anni in Algeria, in Somalia, nelle piazze ambigue delle Primavere Arabe e ora in Siria - privilegia altro: la ricerca, lo scandaglio lento, il confronto costante, continuo, delle fonti intervistate, l'orgogliosa supremazia della testimonianza diretta; è lo Slow Food della conoscenza rispetto ai McDonald della connettività.

Lungo questo borderline sta piantato il lavoro del reporter di guerra, che potrebbe - anche con qualche legittimità - accontentarsi di una lettura da lontano («al di là della frontiera») di quella umanità dolente che s'ammazza e muore sotto bombe e cannonate; la linea d'ombra del suo impegno la può tracciare lui stesso senza troppi strappi di coscienza, e può piegare a sua scelta i fattori genetici del lavoro giornalistico: la raccolta delle informazioni, la loro verifica.

Sul campo si rischia al pelle. E non è più come un tempo, che il giornalista appariva un osservatore neutrale, estraneo alla ferocia degli ammazzamenti; oggi anche lui è un «combattente», gli uni e gli altri se lo contendono come fattore di legittimazione mediatica.

La retorica emotiva di Hemingway si può opporre alla rivendicazione di Kapuscinski, che dice amaro: «Un tempo, questo mestiere lo facevano quelli che avevano empatia profonda con le sofferenze degli uomini e dei popoli, e ci stavano in mezzo, erano lì anch'essi; oggi, sempre più pare un lavoro da impiegati dell'informazione». È vero, ma non è così per tutti, ancora. Certamente, come dimostra questa dolorosa vicenda che colpisce noi de «La Stampa», non per Domenico Quirico.

 

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