"SONO SALITI ANCHE I MIEI FIGLI, NON AVREI MAI RISCHIATO LA LORO VITA" - LUIGI NERINI, IL GESTORE DELLA FUNIVIA DI STRESA, PROVA A DIFENDERSI: "IO STESSO FACCIO AVANTI E INDIETRO SU QUELLA CABINA TUTTO IL GIORNO. SE AVESSI SAPUTO CHE C'ERA QUALCOSA DI PERICOLOSO..." - SECONDO IL TECNICO, LA DECISIONE DI TOGLIERE IL SISTEMA DI SICUREZZA DEI FRENI ERA AVALLATA DA TUTTI: "LO ABBIAMO FATTO PER TUTTO IL MESE. C'ERANO ANOMALIE MA COSÌ RIUSCIVAMO A PORTARE I PASSEGGERI..."
1 - NERINI, LE ACCUSE E LO SFOGO: «SONO SALITI PURE I MIEI FIGLI»
Marco Imarisio per il "Corriere della Sera"
FUNIVIA DEL MOTTARONE - LUIGI NERINI
«Perché i bambini sono l'unica cosa che conta, sono creature fragili e dobbiamo averne cura». Durante il suo discorso di insediamento, il presidente Gigi Nerini si era commosso. Non conta più nulla, perché l'enormità di quel che è successo elimina ogni sfumatura. Lui è la macchia più nera di questo disastro, e tale resterà. Ma le cose sono sempre più complicate di come appaiono, e anche l'animo delle persone.
L'uomo che oggi è accusato di un crimine infame costato la vita a quattordici persone, tra le quali due bimbi, è la stessa persona che vent'anni fa contribuì in solido a far nascere la sezione di Verbania del Kiwanis, l'organizzazione mondiale di volontari che ha come motto «aiutare i bambini di tutto il mondo», avviando di tasca sua una serie di progetti benefici.
Adesso, si sa come vanno le cose, sul lungolago di Stresa si incontrano molti suoi colleghi imprenditori pronti a sostenere che lo faceva per darsi un tono, per entrare in una sorta di Rotary dei poveri.
Parlando con i pochi amici che non lo rinnegano e con alcuni familiari, viene fuori anche il ritratto di una vita passata a rincorrere uno status, con l'ansia perenne di una affermazione personale che andasse oltre la dichiarazione dei redditi e lo ricongiungesse a una storia familiare più florida.
Il suo invece era un benessere precario, reso ancora più incerto dai quindici mesi di pandemia che avevano chiuso i rubinetti della sua unica fonte di reddito, costringendolo a ipotecare i propri beni personali, cominciando dalla casa di famiglia.
La funivia, e il Mottarone, la montagna sulla quale è cresciuto, erano quel che gli restava. Aveva dismesso i beni che il padre ottenne dal ministero dei Trasporti dopo la chiusura della ferrovia a cremagliera. A Stresa c'è ancora il rudere della vecchia pensilina, in stato di abbandono.
«Il lago appartiene ai veri ricchi e ormai non ci sono più posti liberi», aveva detto pochi mesi fa. «Per lo sviluppo del turismo c'è spazio solo in alto». Ma a queste conclusioni c'era arrivato quasi per sottrazione.
Quando le cose andavano bene, aveva rischiato almeno due volte di perdere quella concessione ereditata dal padre e mantenuta con i buoni uffici del Comune di Stresa proprio a causa dell'incuria con la quale gestiva la struttura.
Andrea Lazzarini, l'editore che gestisce per conto suo il sito della funivia, lo ha sentito lunedì mattina. Dovevano concordare due righe da mettere online, una dichiarazione che non fosse soltanto il fermo delle attività. «Faccio avanti e indietro su quella cabina tutto il giorno» gli ha detto. «Se avessi saputo che c'era qualcosa di pericoloso non avrei mai rischiato la vita dei miei figli».
IL SISTEMA DI SICUREZZA DELLA FUNIVIA
La mattina del disastro, sia Federico che Stefano Nerini, che hanno entrambi iniziato a collaborare con l'azienda paterna, sono saliti in vetta. «Avrebbero potuto esserci loro», ha detto all'amico. Era provato. Non ha aggiunto altro. Se non che aveva capito. Era finita, anche per lui.
Suo padre Mario era un uomo autoritario, che gli impose una gavetta senza sconti. A diciassette anni, quando ancora studiava al liceo scientifico di Verbania, cominciò come operaio nell'azienda tessile di famiglia, che fallì nel 1987.
il trenino di stresa mottarone
Passò a lavorare come autista nella società Autoservizi Nerini fondata dal nonno del quale lui porta il nome di battesimo, che non è mai stata un colosso. Si sviluppò tra le due guerre con il trasporto dei familiari che da Verbania salivano all'Eremo, il sanatorio della tubercolosi sul monte Zeda. A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta raggiunse un numero massimo di trenta autobus di linea e da turismo.
Nel 1997, l'azienda di famiglia venne ceduta alla concorrenza. Nerini non apparteneva alle grandi famiglie di Stresa, proprietarie degli hotel famosi in tutto il mondo. Le fette più grandi del turismo lacustre non sono mai state sue.
la vecchia ferrovia stresa mottarone
«Uno che si arrangiava, che grattava il muro con le mani coltivando rapporti, provandoci in ogni modo, ma che non ce l'ha mai fatta davvero». Piero Vallenzasca, ex consigliere comunale di Stresa, esponente di Italia nostra, liquida così uno dei suoi nemici storici.
E certe volte, la cattiveria è meglio dell'indifferenza. Nerini chi? Oggi non risulta a nessuno. Neppure a qualche collega imprenditore che pure figura tra gli iscritti del consorzio turistico Terra dei laghi, una delle sue iniziative finite male.
Promuoveva le bellezze del Lago Maggiore, partecipava a ogni fiera turistica in giro per il mondo, ospitava delegazioni russe e cinesi. Quando la Regione Piemonte tagliò di un terzo i finanziamenti, si scoprì che in cassa non c'era più nulla. Duecentomila euro di scoperto.
Villa Claudia di Baveno è forse il simbolo di questa parabola personale e imprenditoriale. Gigi Nerini ha vissuto in una normale villetta a schiera di Verbania fino alla morte avvenuta nel 2004 dell'amatissima nonna, dalla quale ha ereditato la storica dimora costruita nel XIX secolo. I muri sono pieni di crepe, la tinteggiatura è ormai svanita. Le finestre dell'ala interna hanno i vetri rotti e anneriti.
«Una casa bellissima, abitata da gente che non può permettersi di mantenerla», dice un abitante del condominio di fronte, mentre passa uno dei figli di Gigi Nerini, camminando con la testa bassa e coperta dal cappuccio di una felpa. A Stresa e nei dintorni, non ci saranno domande. E non ci sarà alcuna pietà.
2 - LA CONFESSIONE DEL TECNICO: DECISIONE AVALLATA DA TUTTI
Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera"
C'è un momento preciso nel quale, già messa a dura prova dai sensi di colpa per la morte dei 14 passeggeri della funivia del Mottarone di cui non possono non avvertire il peso, la vita di Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini sprofonda nel baratro.
È quando alle prime ore di martedì mattina i pm che indagano su uno dei maggiori disastri della storia italiana dei trasporti a fune mettono la propria firma sul decreto di fermo che porta i tre in carcere trasformando quello che fino a poco prima veniva letto come un tremendo incidente dovuto ad un fatale, tragico «errore umano», in una «scelta deliberata» e criminale, fatta solo per soldi. Quelli che la Ferrovie del Mottarone avrebbe perso se avesse fermato l'impianto per una lunga riparazione.
Nerini, 55 anni, titolare della società che gestisce la funivia, Perocchio, 51 anni, direttore di esercizio, Tadini, 63 anni capo servizio, sono accusati di «Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro», reato che prevede fino a 10 anni di reclusione in caso di disastro e vittime per chi non mette, rimuove o danneggia sistemi di sicurezza.
I carabinieri della compagnia di Verbania già a 48 ore dall'incidente avevano fornito al Procuratore Olimpia Bossi e al sostituto Laura Carrera tutti gli elementi che spiegavano che i freni di emergenza non erano intervenuti perché erano stati disattivati con i «forchettoni», con la conseguenza che quando domenica mattina la fune di trazione si è spezzata all'arrivo nella stazione di monte, la cabina, libera dall'unico vincolo, è diventata un proiettile, ha ripercorso a ritroso gli ultimi 300 metri fatti all'andata a folle velocità, si è sganciata dalla fune portante schiantandosi a terra.
incidente funivia stresa mottarone 2
Quando Tadini viene interrogato martedì pomeriggio nella stazione dell'Arma di Stresa la situazione si ribalta nel momento in cui ammette «di aver deliberatamente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni (i «forchettoni», ndr) durante il normale servizio di trasporto dei passeggeri», si legge nel decreto di fermo.
Sono le 16.30, arrivano pm e avvocato difensore d'ufficio, l'uomo viene indagato e l'esame riprende con le domande stringenti della Procuratrice e del capitano Luca Geminale.
incidente funivia stresa mottarone
Perché ha messo i «forchettoni»? Perché una serie di anomalie facevano scattare i freni d'emergenza e le riparazioni, l'ultima il 3 maggio, non erano servite a niente. «Per evitare continui disservizi e blocchi della funivia, c'era bisogno di un intervento radicale con un lungo fermo che avrebbe avuto gravi conseguenze economiche. Convinti che la fune di traino non si sarebbe mai rotta, si è poi voluto correre il rischio che ha portato alla morte di 14 persone. Questo è lo sviluppo grave e inquietante delle indagini», è la raggelante risposta di Olimpia Bossi alla fine degli interrogatori mentre alle 4 di martedì mattina sul lago Maggiore albeggia.
precipita funivia stresa mottarone
Il blocco per la pandemia aveva falcidiato gli incassi e, ipotizzano gli investigatori, bisognava evitare ulteriori perdite. Tadini ha dichiarato che Nerini e Perocchio, che erano stati «ripetutamente informati» della situazione, «avallavano tale scelta e non si attivavano per consentire i necessari interventi di manutenzione», riporta il decreto, già dalla riapertura del 26 aprile.
Per quasi un mese, quindi, la cabina è stata una roulette russa per chi ci ha viaggiato. Resta da capire perché la fune traente si sia spezzata, quesito al quale risponderanno le consulenze tecniche che saranno affidate dai pm già da oggi.
Per i magistrati, quindi, siamo di fronte a fatti la cui «straordinaria gravità» è dimostrata dalla «deliberata volontà di eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza dell'impianto di trasporto per ragioni di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole di sicurezza, finalizzate alla tutela dell'incolumità e della vita dei soggetti trasportati».
INCIDENTE FUNIVIA STRESA MOTTARONE
Quello che è accaduto, scrivono ancora, a causa della «sconsiderata condotta» dei tre indagati comporta, in caso di una condanna in un processo, «l'irrogazione di una elevatissima sanzione detentiva».
Questo potrebbe spingere gli indagati a fuggire. Secondo i pm, infatti, il pericolo di fuga è «concreto e prevedibilmente prossimo alla volontà degli indagati» anche «in considerazione dell'eccezionale clamore a livello internazionale» della vicenda e «per la sua intrinseca drammaticità, che diverrà sicuramente più accentuata» quando emergeranno per intero tutte «le cause del disastro».