LE SOTTILE LINEA ROSSA DI ZELENSKY – CÈ UN PROBLEMA SULLA STRADA PER UNA TRATTATIVA DI PACE CON PUTIN: DOPO MILLE GIORNI DI GUERRA, IL PRESIDENTE UCRAINO NON PUÒ CHIEDERE AL SUO POPOLO DI ABBANDONARE IL DONBASS ALLA RUSSIA – I SONDAGGI DICONO CHE TRA IL 60 E L’80% DEGLI UCRAINI È FERMAMENTE CONTRARIO A QUALUNQUE CONCESSIONE TERRITORIALE – EPPURE, QUANDO NEL 2019 FU ELETTO, ZELENSKY RIAPRÌ IL NEGOZIATO CON PUTIN SUL DONBASS E ORDINÒ ALLE TRUPPE DI RITIRARSI…
Estratto dell’articolo di Anna Zafesova per “La Stampa”
Forse appare quasi impossibile visto dal presente, ma quando, cinque anni fa, un Volodymyr Zelensky giovane e pieno di entusiasmo aveva stravinto le elezioni in Ucraina, lo aveva fatto presentandosi come "presidente della pace". Era stato lui a riaprire, con grande disappunto dei sostenitori del suo predecessore e avversario Petro Poroshenko, il negoziato con Vladimir Putin, ribadendo di essere pronto a «mettersi in ginocchio» se fosse servito a raggiungere la pace.
Era stato lui a convincere il Cremlino, con l'aiuto di Angela Merkel ed Emmanuel Macron, a stringere la tregua più duratura che ci sia mai stata nel Donbas, ordinando alle sue truppe di allontanarsi dalla linea del fronte. […]
PUTIN FIRMA I TRATTATI DI ANNESSIONE DEL DONBASS
La storia ovviamente non possiede condizionale, ma oggi, quando qualcuno discute se Zelensky potrebbe cedere il 20 o il 15% dei territori, se proprio si intestardisce a non voler regalare a Putin il 30%, potrebbe essere interessante ricordare alcuni passaggi della drammatica vicenda che all'epoca erano stati ignorati da buona parte dell'opinione pubblica occidentale.
Era il 2019, e Poroshenko aveva appena perso le elezioni con il suo slogan "Esercito, fede, lingua", che dopo cinque anni di annessione della Crimea e occupazione russa di parte del Donbas suonava a molti come troppo bellicoso. In molte conversazioni a Kyiv, negli uffici dei funzionari, negli studi degli intellettuali come nelle cucine degli attivisti del Maidan, veniva pronunciata spesso la frase «superare il conflitto», e il suo contenuto implicito era evidente: lasciare «alcuni distretti delle regioni ucraine di Donetsk e Luhansk» - il nome ufficiale sotto il quale le allora "repubbliche popolari" separatiste figuravano nei documenti di Minsk - in qualche forma di "conflitto congelato", in attesa di una fine del regime di Putin.
[…] il piano Z esaminato negli uffici di Zelensky: in caso di fallimento del negoziato con la Russia, dare la priorità di un futuro a chi voleva proseguire il cammino europeo con l'Ucraina, e lasciare a Putin la gestione dei territori disastrati dai suoi mercenari.
Uno scenario che già all'epoca divideva soprattutto i profughi dal Donbas, quel milione scappato nel 2014 a Kyiv e in altre città ucraine, spesso per fare delle splendide carriere, e per spaccarsi nettamente sulla questione del ritorno dei territori: chi aveva conservato ancora parte della famiglia dall'altra parte bramava la riconquista, chi era andato via da Donetsk e Luhansk senza lasciarsi dietro nulla e nessuno proponeva di chiudere la porta e di buttare via la chiave.
Un divario che oggi si replica nei sondaggi, che vedono gli ucraini favorevoli a una cessione dei territori scendere drasticamente di numero man mano che ci si avvicina alla linea del fronte. Se per parte degli abitanti di Leopoli o Ivano-Frankivsk l'Est è spesso un mondo lontano, troppo "moscovita", per i cittadini di Kramatorsk e Dnipro una ipotetica cessione dei territori significa lasciare ai russi fratelli e zii, e diventare loro stessi la nuova "linea di contatto".
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Quelli propensi al "compromesso territoriale" - in linea di principio, senza specificare tutte le variabili riguardo alla sua estensione e condizioni - sono comunque la minoranza: il 60-80% degli ucraini (i numeri variano da sondaggio a sondaggio) sono fermamente contrari a qualunque concessione territoriale. Perfino un maestro della gestione dell'opinione pubblica come Zelensky non può fare molto con questi numeri: a dettarli, sono mille giorni di guerra, di bombe e missili, di città rase al suolo, di villaggi devastati, decine di migliaia di soldati uccisi e mutilati, milioni di civili fuggiti e famiglie distrutte.
Una guerra che non è più (se mai lo fosse stata) una questione di territori, e anche il giorno che la stanchezza e la mancanza di mezzi e uomini dovessero costringere gli ucraini a cedere il Donbas, non è affatto detto che quel che resta dell'Ucraina potrebbe in cambio entrare nell'Ue e avere garanzie di incolumità da una nuova invasione russa.
E si porrebbe un altro problema che va ben oltre la giurisdizione di Zelensky e dei suoi generali: nel diritto internazionale moderno semplicemente non esiste l'opzione di riconoscere il passaggio di proprietà di territori occupati militarmente. È dal 1945 che in Europa non vengono annessi parti di Stati sovrani, e riconoscere ufficialmente e formalmente un precedente in cui una potenza militarmente più forte (e dotata di arsenale nucleare) può appropriarsi con la forza di un pezzo del vicino più debole significherebbe aprire almeno cinque o sei guerre di conquista in giro per il mondo, dall'Asia al Sudamerica.
Uno scenario che rappresenta un incubo per l'intera comunità internazionale, e in particolare per l'Europa, primo bersaglio del putinismo trionfante.
strage di soldati russi a Trudivske nel DonbassVOLODYMYR ZELENSKY VLADIMIR PUTINPRIGIONIERI RUSSI UCCISI NEL DONBASS