BISTURI, SI SBAGLIA – SOLO IL 30% DEI MEDICI NORDAMERICANI AMMETTE I PROPRI ERRORI, MA IN CORSIA SI SBAGLIA PARECCHIO – COMUNICARE IN MODO ONESTO GLI ERRORI A PAZIENTI E FAMILIARI AIUTA A NON RIPETERLI
Marco Pivato per “la Stampa”
Sarà il fascino del camice bianco, i titoli incorniciati alla parete, l’autorità di un eloquio di fronte al quale, a volte, si resta silenziosi. Ma non è tutto qui: al medico e al suo «tempio» si diventa fedeli, in primis, in cambio di un «patto» che nasce da una richiesta d’aiuto. È necessaria, allora, un’alleanza che vada oltre i protocolli clinici e stabilisca nell’empatia del rapporto medico-paziente un ingrediente fondamentale della cura.
In questo legame, per definizione biunivoco, a tenere la mano più stretta è però il medico, investito di una responsabilità che non si impara sui manuali. Riflettere sulle fondamenta di questo «patto» servirà a superare la deontologia corrente, riscrivendo le regole della trasparenza.
Ad analizzare questo aspetto-chiave è il saggio, in uscita negli Usa, «Clinical Oncology and Error Reduction: A Manual for Clinicians», edito da Wiley-Blackwell. Il forte memento è di Antonella Surbone, oncologa e docente alla New York University e coordinatrice dell’Asco, l’Associazione americana di oncologia clinica, e di Michael Rowe, sociologo e docente di psichiatria alla Yale School of Medicine.
Il loro libro - forte di studi validati e percorso dall’ambizione di contribuire a ridurre gli errori medici attraverso una serie di cambiamenti, sia individuali sia di sistema - dimostra che ammettere che qualcosa è andato storto, nelle cure, in sala operatoria o già alla diagnosi, aumenta la qualità della vita di pazienti, familiari e medici stessi.
Professoressa Surbone, di fronte alla consapevolezza di aver commesso un errore, come si deve comportare un medico?
«Si tende a reagire in due modi opposti. O razionalizzando l’evento e pensando che “a fronte di migliaia di casi non possiamo avere sempre la risposta giusta”, soprattutto se, “tanto, era un paziente molto malato”; oppure con un forte senso di colpa, arrivando anche a lasciare la professione o, come per contrappasso, diventando ossessivi. Modi che sono, entrambi, delle sconfitte. Nel primo caso il medico potrebbe sentirsi più giustificato se gli accadesse di sbagliare di nuovo. Nel secondo caso potrebbe essere meno efficace con i futuri pazienti per eccessivo timore o incertezza. Il medico, invece, impara dai propri errori quando sa comunicare in modo onesto con i pazienti e con i familiari».
Quanto è diffusa l’abitudine di minimizzare o nascondere al paziente un errore?
«Per dare un’idea, secondo le ricerche di Thomas Gallagher dell’Università di Washington, solo il 30% dei medici nordamericani, pur convinti della bontà di comunicare i propri sbagli, quando sono intervistati sotto anonimato, lo fa davvero».
Il paziente che, nonostante l’errore, si salva come reagisce di fronte alla consapevolezza che il medico ha mentito?
«C’è chi denuncia e chi no. A proposito del secondo caso, sono interessanti i risultati di una ricerca condotta assieme a Rowe: intervistando un gruppo di pazienti sopravvissuti a errori, abbiamo mostrato che in loro prevale la volontà di non aggiungere sofferenza a sofferenza: c’è stata la malattia, la degenza e poi c’è stato l’errore e così, infine, si arriva esausti. Ciò che interessa è soprattutto lasciarsi il passato alle spalle e non denunciare. Va detto anche che la probabilità di scegliere di non denunciare aumenta se il medico ha chiesto apertamente scusa».
Qual è, invece, la reazione dei familiari, quando il paziente non sopravvive?
«Mi ha molto colpito la vicenda personale di Rowe, che ha perso il figlio Jesse, di 19 anni, durante un trapianto di fegato. Si sentì abbandonato dai medici, che liquidarono l’evento come “accidentale”, rifiutando di parlarne. Dopo l’impulso a denunciarli in Rowe è prevalso un altro desiderio: ha scritto un libro su Jesse che ha fatto molto discutere, allo scopo di rompere il silenzio terrificante che era calato dopo la sua morte. Molto più di una denuncia nel senso stretto del termine, no?».