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IL 25 APRILE DI MUGHINI – "DALL’ANTIFASCISMO FURIBONDO DELLA MIA GENERAZIONE PROVENIVANO GLI ASSASSINI DELLE BRIGATE ROSSE E DI PRIMA LINEA. TUTTI. VOLEVANO FARE NELL’ITALIA DEGLI ANNI '70 QUELLO CHE I GAPPISTI COMUNISTI AVEVANO FATTO A TORINO, MILANO, ROMA TRA IL 1944 E IL 1945 – LEGGO SUL “FATTO” DI OGGI CHE FURONO “GLI ITALIANI DEI GAP” A “COSTRINGERE IL NEMICO ALLA RESA. AH SÌ, A MONTECASSINO FURONO QUELLI DEI GAP A VINCERE UNA RESISTENZA NAZI CHE DURAVA DA MESI?''
LA VERSIONE DI MUGHINI
Caro Dago, avevo vent’anni la prima volta che assieme ai miei coetanei catanesi demmo gran risalto alla celebrazione del 25 aprile e dunque all’apoteosi dei combattenti partigiani che avevano affrontato con le armi in pugno repubblichini e SS tedesche. In quel momento avevo al mio attivo la lettura di un tomone einaudiano a firma Luigi Salvatorelli, nonché delle “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci, che in una cella fascista c’era rimasto per poco più di sette anni, e di qualche saggio apparso su riviste diffuse fra la nostra generazione.
Credevo di saperla lunga, molto lunga, e schiamazzai mica male lamentandomi che la Repubblica italiana del dopoguerra fosse stata non sufficientemente severa nei confronti dei fascisti, di quelli che nel ventennio e durante la guerra civile stavano dalla parte della dittatura. Nell’ardore della mia concione dimenticavo che uno di quei fascisti era stato mio padre, quello che a me ventenne pagava gli studi universitari e mi dava i soldi di che comprarmi il libro di Salvatorelli e quello di Gramsci.
Non che mio padre non avesse pagato adeguatamente la “colpa” di essere stato fascista. Era un dirigente di medio livello di un’azienda della Fiat da cui si dimise, come a riconoscere il suo statuto di “vinto”. Ricominciò da zero, in uno scantinato dove teneva i conti di uno che era stato un suo subordinato. Un giorno che lui non stava bene e io lo stavo assistendo in casa sua, e lui aveva appena letto un mio articoletto contro le “squadracce fasciste”, mi disse a bassa voce se lo sapevo che lui ne aveva fatto parte.
Risposi di sì, che lo sapevo, e ovviamente ero pronto alla pugna. Lui non aggiunse nemmeno una parola. Né mai mi disse una parola di disapprovazione, nei sette o otto anni che durò il mio antifascismo furibondo, né mai cessò di darmi i soldi con cui andavo arricchendo il comparto della mia biblioteca dedicato alla dittatura fascista, un comparto che oggi annovera 700 0 800 libri.
La sagoma di mio padre fascista è stata una molla decisiva ad alimentare la necessità che per me s’è fatta spasmodica di capire, di capire quegli anni, di capire il come e il perché della guerra civile, altro che andare in corteo nella giornata del 25 aprile a ricordare che il fascismo “faceva schifo”, ciò che in tanti raccomandano, ad esempio il regista italiano che ha per nome di battaglia Pif e che sul “Fatto” di oggi scrive un mucchietto di ovvietà su Matteo Salvini, uno che con il fascismo non ha niente a che vedere né di “diritto” né “di rovescio”.
Dall’antifascismo furibondo della mia generazione provenivano gli assassini delle Brigate Rosse e di Prima linea. Tutti. Volevano fare nell’Italia dei Settanta e degli Ottanta quello che i gappisti comunisti avevano fatto a Torino, Milano, Roma tra il 1944 e il 1945, e come se fossero minimamente paragonabili le circostanze dell’Italia squassata dalla guerra civile con quelle della democrazia italiana dei tempi in cui al governo c’era una coalizione di centro-sinistra.
Di quelle azioni, di quei Gap, di quelle circostanze drammaticissime in cui gli italiani di una parte si avventarono contro gli italiani dell’altra, oggi so tutto. Conoscevo e volevo bene a Rosario Bentivegna, il gappista di via Rasella. Rimase un’ora in piedi, travestito da spazzino, ad aspettare che arrivasse il corteo di militi che indossavano la divisa dell’avversario.
Per poi accendere la miccia. Alla sera, rincantucciato in casa di Carla Capponi (medaglia d’oro della Resistenza), per togliersi di dosso quella terribile tensione lui e Carla si misero a giocare a scacchi. Poche ore dopo i nazi cominciarono a selezionare le vittime destinate alla rappresaglia, dieci fucilati per ogni milite morto. Nel computo sbagliarono per eccesso, cinque fucilati in più, ed ecco perché Herbert Kappler venne condannato all’ergastolo, non per avere comandato una “rappresaglia”, che era legalmente consentita in tempo di guerra.
Fra gli 800 libri di cui vi ho detto ce n’è uno pubblicato da Laterza una trentina d’anni fa dove sono le registrazioni delle telefonate che i cittadini romani si scambiarono all’indomani dell’attentato. Tutti, dico tutti, lo disapprovano. Eppure Roma è insignita di medaglia d’oro della Resistenza. Per avere fatto che cosa? Altri due gappisti a Roma divenuti poi uomini di grande levatura, sono stati Alfredo Reichlin e Luigi Pintor.
Luigi mi raccontò che alla notizia della morte del fratello su una mina nazista, decise una sua personale vendetta, lui e Alfredo. Andarono da qualche parte e puntarono sulla prima divisa tedesca a portata di mano. “Non lo rifarei, o comunque non in quel modo”, mi disse Luigi. E’ meglio sapere queste cose o scorrazzare in giro a sventolare bandiere rosse nel giorno della Liberazione?
A una puntata televisiva cui ho partecipato qualche giorno fa ecco che qualcuno raccomandava la necessità di ringraziare i “liberatori” del 1945. “E allora dobbiamo ringraziare i soldati americani ventenni che sbarcarono in Sicilia, sulla spiaggia di Omaha Beach in Normandia e poi ad Anzio”, ho subito replicato ben sapendo che chi avevo di fronte non sapeva bene di che cosa si stesse parlando. Leggo ancora sul “Fatto” di oggi che nelle case, nelle campagne e nelle città furono “gli italiani dei Gap” a “costringere il nemico alla resa". Ah sì, a Montecassino furono quelli dei Gap a vincere una resistenza nazi che durava da mesi? No, fu una brigata polacca, gente che arrivò in cima e scoppiò a piangere al pensiero di quello che aveva sopportato il loro Paese.
Potrei continuare per ore. Non senza ricordare che quando Rosario Bentivegna è morto, il cimitero isreaelita s’è rifiutato di accogliere le spoglie sue e di Carla Capponi. Fuori dalla retorica, l’agguato di via Rasella non gode di grande prestigio. Me ne dispiacque immensamente per Rosario, un soldato che aveva obbedito a un ordine del comando Gap di Roma (Giorgio Amendola, e non solo) e il cui coraggio personale era stato immenso. Solo che Roma non è stata “liberata” dai Gap e bensì dalle armate angloamericane. Arrivarono una mattina di giugno e Maurizio Ferrara (il padre di Giuliano), che se ne stava rincantucciato in una casa di via Flaminia, lo avvertì dall’odore di sigarette che arrivava dalla strada. Ed era indubitabilmente un tabacco americano.
GIAMPIERO MUGHINI