TE LA DO IO L’ARCHISTAR - LA BIENNALE “MINIMAL” DI ARAVENA: “IL VERO ARCHITETTO È L’INQUILINO. IL PROGETTISTA, AL MASSIMO, PUÒ REALIZZARE METÀ DELLA CASA, L’ALTRA METÀ LA COSTRUISCE CHI STA DENTRO” - L’ESIGENZA DI IMPARARE DA ARCHITETTURE FATTE CON SCARSITA’ DI MEZZI
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Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera”
Te la do io l’archistar! Il vero architetto è l’inquilino. Il progettista, al massimo, può realizzare metà della casa; l’altra metà, il focolare, la costruisce chi sta dentro. È la risposta che Alejandro Aravena, direttore della 15ma Biennale di architettura che si svolgerà a Venezia nel 2016, dà al problema abitativo. Il problema di un mondo che ha superato i sette miliardi di abitanti con più del 50% concentrati nelle città.
Dunque basta esibizioni formali, basta sistema della moda. L’architettura è una missione e l’architetto è uno che non si deve far vedere. «L’architettura è uno specchio, riflette lo stato delle cose, ma è anche un cappotto, che ci deve far stare bene senza sapere di averlo addosso.
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Credo che l’architettura delle archistar non volesse scomparire, bensì essere vista». Aravena — bel 48enne cileno, ciuffo da calciatore, parlata spigliata —, protagonista nella costruzione di architetture sociali, sposta il timone lontano dal demi-monde.
La sua rassegna, come ha annunciato ieri a Venezia ai curatori dei Paesi che parteciperanno, si intitolerà Reporting from the front ed è «aperta a tutti quelli che vogliano offrire analisi d’interesse collettivo, a chi desidera fare qualcosa, anche di piccolo, che possa essere di esempio».
Venezia è città aperta. Ma dal «guru» Koolhaas (curatore della Biennale di architettura 2014), al «missionario» sul fronte Aravena, c’è una sostanziale differenza. Il primo filosofeggiava sugli Elementi primi ; il secondo su come dare un tetto ai poveri. Partiamo dall’idea di autocostruzione, perno del pensiero di Aravena.
«Può essere una soluzione anziché il problema. Le favelas, tipiche autocostruzioni, sono la testimonianza di come senza capitale uno realizzi un’abitazione». Se il capitale pubblico non è sufficiente, nei suoi progetti Aravena ha utilizzato questo capitale per acquisire la proprietà e realizzare una prima parte dell’abitazione: ciascun proprietario si è poi impegnato a terminarla.
L’altro perno è che l’architettura sociale debba creare socializzazione. Spesso, invece, l’edilizia sociale si è tradotta in megastrutture tipo Vele o Corviale che non hanno generato urbanità.
«Mettere in moto relazioni sociali è fondamentale — dice —. Spesso, invece, le megastrutture orizzontali, ma anche i grattacieli, non generano accordo sociale». Già, i grattacieli, propaggine del Movimento moderno che giunge sino alla nostra età hi-tech. «Sono una risposta alla scarsità di suolo, e funzionano per attività produttive, non abitative — afferma Aravena —. Il loro consumo energetico è spaventoso. Oggi sono quasi tutti in ferro e vetro e con aria condizionata».
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Sembra che con Aravena la Biennale abbia colto, ancora una volta, lo Zeitgeist del momento, proponendo un architetto sudamericano engagé e chiamando se stessa a fare i conti con il proprio recente passato. Basta con la moda e anche con il decostruzionismo? «La moda è qualcosa di adatto a fiutare cosa c’è nell’aria, ma è inconsistente.
L’architettura deve resistere al tempo. Lo so che molti soldi dell’architettura contemporanea provengono dalle maison di moda; non c’è problema. I soldi pubblici non bastano per dare una casa decente a tutti, ben vengano quelli privati, ma utilizzati in vista di un interesse collettivo».
Anche in favore dei migranti. «Nei Paesi di origine bisogna costruire opportunità; in quelli di arrivo luoghi più decenti di accoglienza. L’architettura è un elemento di sintesi, un po’ come l’agricoltura: bisogna partire, seminare per sanare la mancanza di equità nel mondo».
Ma lei è certo, chiediamo, che il grande capitale finanziario intenda sanare la mancanza di equità? «Per lo stesso capitale, se le condizioni diventano troppo instabili, la situazione non conviene più».
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