all the streets are silent

‘’ALL THE STREETS ARE SILENT’’, QUANDO SUI MARCIAPIEDI DI NEW YORK L'HIP HOP INCONTRÒ LO SKATEBOARD – IL BOMBASTICO DOCUMENTARIO DI JEREMY ELKIN RACCONTA CON FILMATI ESALTANTI LO “SPOSALIZIO” TRA IL RAP E LO SKATE - PER LE DUE CULTURE IL COLLO DI BOTTIGLIA FU L'APERTURA NEL 1989 DEL CLUB MARS A NEW YORK. FU LÌ CHE FECERO CAPOLINO PER LA PRIMA VOLTA RUN DMC E JAY-Z. PERSINO I BUTTAFUORI AVREBBERO FATTO CARRIERA, COME VIN DIESEL E BEN STILLER - VIDEO

All the Streets Are Silent

Fabrizio Accatino per “La Stampa”

 

Prima che l'hip hop entrasse nella hall of fame sopravanzando il rock, prima che lo skateboard diventasse disciplina olimpica muovendo milioni di dollari con le sue linee di abbigliamento, prima di tutto questo Jeremy Elkin era un timido ragazzino del Quebéc che trascorreva i pomeriggi sulla tavola a quattro ruote. 

 

 

All the Streets Are Silent

Nel west side di Montréal, filmava con una Nikon 775 i grab e i flipkick dei suoi coetanei. Era la fine degli Anni 90. Oggi Jeremy è sempre timido, ma è un trentacinquenne e vive a New York. Per anni è stato responsabile dei contenuti digitali di Vanity Fair, fino a quando non ha deciso di dedicarsi alla regia di documentari. 

 

Il suo primo lungo, All the Streets Are Silent, è stato presentato al Tribeca, ha girato i festival di mezzo mondo (compreso il bolognese Biografilm) e fino a oggi è in sala distribuito da Wanted. Il succo sta nel sottotitolo: «La convergenza dell'hip hop e dello skateboarding (1987-1997)».

All the Streets Are Silent

 

«Per entrambe le discipline quello è stato un momento cruciale, che ha portato alla nascita di marchi celebri, programmi radiofonici, film e miti fondativi - spiega il regista -.

A fine Anni 80 il centro di New York era molto diverso da oggi, non era certo un luogo sicuro o di lusso. 

 

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L'epicentro di tutto era Washington Square, un'area di sei isolati e sette vie composte da case, night club, un paio di uffici e lo studio di registrazione di Björk. All'epoca essere uno skater era qualcosa di raro, al punto che quando sentivi il rumore della tavola ti voltavi e dieci volte su dieci era qualcuno che conoscevi. Ugualmente, nei club del centro nessuno suonava l'hip hop. In più, se eri nero era impensabile andare sullo skateboard, se eri bianco non esisteva ascoltare gli MCs. A ripensarci oggi sembra incredibile, ma era così».

 

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Per le due culture, il collo di bottiglia è stato l'apertura nel 1989 del club Mars, all'incrocio tra 13ª strada e 10ª avenue. Sei piani, sei piste da ballo per sei generi musicali, dall'house al rock al reggae.

 

Fu lì che fece capolino per la prima volta l'hip hop. Il Mars visse solo tre anni, sufficienti per veder transitare astri nascenti come i Run DMC e Jay-Z, Busta Rhymes e Moby.

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Persino i buttafuori avrebbero fatto carriera, come Vin Diesel e Ben Stiller. «Uno dei proprietari era il giapponese Yuki Watanabe: era stato tra i gestori dello Studio 54, curava gli interessi di Grandmaster Flash e Afrika Bambaataa e aveva scoperto Madonna, diventando il suo manager fino all'uscita di Like a Virgin. 

 

Era inevitabile che quegli strani tipi a quattro ruote suscitassero il suo interesse. Pensò che regalando ingressi gratuiti, quel nuovo mondo si sarebbe spostato nel club, arricchendone la scena. Fu sempre lui a invitare Kay Gee dei Cold Crush Brothers, pionieri degli MCs. Per ironia della sorte, il Mars sarebbe diventato talmente un punto di riferimento per l'hip hop da dover chiudere per i ripetuti episodi di violenza gangsta nel locale». 

All the Streets Are Silent

 

Velato da un titolo straniante (in 90 minuti di film non c'è un solo istante di silenzio), All the Streets Are Silent è costruito su interviste ai protagonisti di allora - tra cui Moby e l'attrice Rosario Dawson - ma soprattutto da rarissimi filmati d'epoca girati da Eli Morgan Gesner, che della scena skateboard faceva parte. 

 

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«L'ho conosciuto per caso. Sapevo che aveva una tonnellata di materiali d'epoca, così gli promisi che se me li avesse messi a disposizione glieli avrei digitalizzati. Eli è stato la persona giusta al posto giusto, in grado di documentare dal di dentro il decennio in cui questo fenomeno è nato e cresciuto. Il film è un'opera collettiva, ma lo sguardo sullo schermo è soltanto il suo».

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