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LO SCRITTORE CON LA PISTOLA – AUGIAS IN ESTASI PER LO SFOLGORANTE NUOVO ROMANZO DI AURELIO PICCA SU ROMA, MAGNIFICA E INFAME - “LA CAPITALE L’HO AMATA QUANDO ERA PLEBEA E NON MISERABILE. L’HO AMATA PRIMA DEI TOSSICI, NEI TEMPI IN CUI ERANO IN VENTI A FARSI DI EROINA. L’HO AMATA QUANDO NESSUNO VOLEVA CAMBIARLA. PERCHÉ NON ERA CAPITALE DI NIENTE” – QUEL PARAGONE CON HENRY MILLER MA…

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Corrado Augias per il Venerdì-la Repubblica

 

Di una Roma così raramente si legge, certo c’è stato Giuseppe Gioacchino Belli con la sua plebe – però altri tempi; oppure, sul piano cronistico, Massimo Lugli con i suoi attenti resoconti. Il caso di Aurelio Picca è diverso perché la Roma di cui narra in questo Arsenale di Roma distrutta (Einaudi) è sì quella della plebe e della malavita, filtrata però dalla fantasia e dalla lingua aspra d’uno scrittore eccentrico nel panorama italiano. Velletrano, età indefinita (non ama che si sappia), ribelle e conservatore, personalità forte e contradittoria, così si descrive (o lascia che altri lo facciano): «Orfano, dunque nobile e eroe/ viaggiatore cimiteriale/ pittore senza tele/ ribelle al mondo/ conservatore nella vita».

 

Nelle sue pagine ritrae la città spaziando dall’ospedale del Bambin Gesù alla «Luce di Monte Mario che calava dietro l’Olimpico di Chinaglia, di Ciccio Cordova, di Bruno Giordano e di Totti». Picca racconta i delinquenti piccoli e quelli meno piccoli, avanguardie di ciò che sarà la Banda della Magliana. È stato definito Henry Miller dei castelli romani ma non è giusto. A Henry Miller manca il tasto della tenerezza che invece Picca sa tirare fuori quando meno te l’aspetti.

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Descrive la scoperta infantile di Roma: «La luce del mattino timbrava a ogni oggetto. Anche l’asfalto era una pista. Ma nessuna macchina o moto la percorreva. Il cielo, molto alto, sono sicuro che aveva abbandonato con gentilezza l’alba e andava a rincorrere il sole di giugno». Il suo è uno sguardo scaltro sia che descriva il banco di un pizzicagnolo sia che racconti la serata in uno di quei club notturni dove non si sa mai che cosa possono riservarti quelli del tavolo accanto:

 

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«Chi si incontrava là dentro non si presentava, né avrebbe saputo il nome dell’altro. Ognuno era solo ...». Roma, confessa, l’ho amata quando era plebea e non miserabile... L’ho amata prima dei tossici, nei tempi in cui erano in venti a farsi di eroina». Poi, proprio nel finale, piazza una confessione che coincide con ciò che penso anch’io: quella d’aver amato Roma fino al 1957 (io fino al 1960): «Quando nessuno voleva cambiarla. Perché non era capitale di niente». Magnifica e infame la Roma di Picca, com’è sempre stata. Poiché parlo di un libro aggiungo: pagine che volano sotto gli occhi.

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