BARBARA VITTI, UNA STORIA LOMBARDA/2 - QUIRINO CONTI: “COS’ERA MILANO IN QUEI PRIMI ANNI SETTANTA! LA VITALITÀ DEL NUOVO E DELL’APPENA NATO DAVA QUEL GENERE DI EUFORIA CHE SEMPRE CAUSA LA CONSAPEVOLEZZA D’ESSERE NEL TEMPO, NELLA STORIA, NELLA PROPRIA CONTEMPORANEITÀ, NEL SOLO PUNTO DETERMINANTE: ARTEFICI DI CIÒ CHE CONTA E APPARE INELUDIBILE”
Quirino Conti per Dagospia
Una storia lombarda
QUIRINO CONTI- GIARDINO BOBOLI (PF. VIGO)
Cos’era Milano in quei primi anni Settanta! Intanto che, volgendosi imprudentemente verso ciò che restava della morente Alta Moda romana, anche attorno a nomi che erano stati alteri e reboanti, tutto, proprio tutto appariva come destinato al disfacimento e alla rovina, dentro un tragico cono d’ombra e d’inutilità. In una noiosa, inesorabile impotenza fin-de-race senza scampo alcuno.
La redazione di Grazia- Maria Pezzi, Elsa Haerter e Anna Vanner. Venezia, 1956
Mentre lì, tra nuovi paesaggi, comportamenti nuovi e finanche nuove fisionomie, in un odore inconfondibile e totalmente inedito per chi frequentasse d’abitudine atelier e sartorie – quello della fabbrica e di quanto smuoveva pulegge e ingranaggi (reali e metaforici), catene di montaggio e cicli produttivi –, lì la vitalità del nuovo e dell’appena nato dava quel genere di euforia che sempre causa la consapevolezza d’essere nel Tempo, nella Storia, nella propria contemporaneità, nel solo punto determinante: artefici di ciò che conta e appare ineludibile.
Similmente a come si poteva ascoltare dagli estatici racconti dei superstiti testimoni dei Ballets Russes e di quella irripetibile stagione. Un’eccitante euforia che avresti detto simile all’ebbrezza; in una interminabile primavera.
Ora che, in volo verso quella città, sopra le nuvole, e dunque già con l’immaginazione e il pensiero fuori dalle cose, al momento di atterrare ci si poteva a ragione convincere di stare per scendere nel cuore stesso del proprio tempo, in quella ennesima, incomparabile, unica Modernità. Cosicché, voltandosi indietro appunto, c’era da correre il rischio di perdersi e di restare di sale: come nel più classico dei miti.
Lì, in quel piccolo mondo di stilisti – quale nome più azzeccato per giovani talenti pronti a sconvolgere l’aspetto della Storia? – e di professioni nuove, appena inventate. Già, da un giorno all’altro, in una sede adeguata, con bell’indirizzo, senso del lavoro, degli affari, e professionalità.
Lì incontrai Barbara Vitti.
Ci fece conoscere un comune amico, compratore alla Rinascente (quanto deve la Moda a quella fucina di creativi e stilomani!) che, in quell’appena nato mondo dello Stile, si muoveva con buone amicizie, disinvoltura e grande comunicativa.
Ci presentò all’Hotel Palace per il mio esordio a Milano.
Da allora non ci siamo più persi.
Affermare che Barbara Vitti avesse molte relazioni è dare un limite al suo indirizzario di allora. Giacché i pochissimi che eventualmente non vi fossero previsti, se necessario, dopo un attimo, erano già dentro la sua festosa capacità di coinvolgere e includere.
Da milanese autentica, come nessuno.
Con il sentimento in mano – almeno così dicono loro –, chiacchiere lo stretto necessario e appena sufficiente, e tantissimi fatti. Sobriamente, certo (venivo dalla pomposissima romanità), ma con intensità e determinazione.
ARMANI ALLA PRIMA DELLA SCALA 2013
Mi ero appena laureato in architettura – ormai è quasi, anzi è sicuramente, un difetto, la laurea – e, in quegli anni, con Gianfranco Ferrè già famoso e architetto rodato, eravamo due autentiche rarità: eppure, senza troppi giri di parole o grilli per la testa. Giacché Milano allora era così, piena di occasioni straordinarie, possibilità e generosi slanci: per chiunque, anche se illetterato, purché avesse talento e qualcosa da dire.
Barbara Vitti si occupava allora del GFT e lì fummo a lungo insieme, dopo Trussardi e poi via via in occasioni di lavoro memorabili.
Sapendo unire ciò che avevamo di diverso l’uno dall’altra assieme a quello che, accomunandoci, ci dava energia e forza.
Compresa una rara predisposizione per l’elaborazione di lettere; sì, di lettere – fax o e-mail che fossero: pacificate, risentite o sentenziose a seconda del caso. Ovunque fossimo, se c’era un problema da risistemare quella era la nostra tempestiva, irresistibile specialità. A qualunque ora. Perché in quegli anni la felicità consisteva, più che in qualsiasi altra cosa, nell’essere costantemente in un solo pensiero dominante: l’impagabile privilegio, cioè, di esercitare la più moderna delle professioni e la più straordinaria.
Ma oltre alla determinazione, ciò che fin d’allora colpiva in lei era la passione contagiosa con la quale svolgeva il suo lavoro. Passione che rendeva unica ai suoi occhi, e dunque anche ai suoi interlocutori, qualunque cosa le fosse stata affidata. Che si trattasse di una nuova impresa, una presentazione o una campagna pubblicitaria, ogni volta quell’incarico diveniva il suo oggetto d’amore, il solo suo scopo. Per ogni dettaglio: anche solo dover scegliere una didascalia o un impaginato. Appassionatamente, sempre. Quali che fossero le difficoltà e gli impedimenti. Allora come oggi.
E così lo Studio Vitti diveniva un’istituzione, e non soltanto in quel pugno di geniali elaboratori di stile e di immagini.
E costantemente ai vertici di un sistema che a grandi passi si faceva sempre più esigente, mai che smarrisse l’unico modo che conosceva per affrontarlo: dunque entusiasmo, volontà, metodo e illimitata disponibilità, oltre ogni immaginazione.
Ma soprattutto, passione: vorace e bruciante. Che le riempiva la vita. Per qualunque particolare di quel nuovo corso di storia professionale, come non ci fosse altro al mondo.
Forte, tenace, rassicurante; per chi le era accanto, una sorta di muraglia protettiva e invalicabile, di bastione armato.
L’ho osservata con i miei occhi muoversi nel mondo al fianco dei più grandi nomi dello Stile: ebbene, anche in quelle occasioni riuscendo a non tradire se stessa e rimanendo ciò che era ed era stata in quei primi anni Settanta, agli esordi di tutto.
Identica: lombarda, milanese e con il sentimento a fior di pelle. Inflessibile, seppure, fortunatamente, con molti varchi di fragilità in quel suo tono alto e sonoro – e una “r” inconfondibile – capace di tenere tutto in pugno.
Cos’era Milano in quegli anni! Cos’erano quei giorni!
E non perché, rievocando il passato, si rimpiange unicamente la giovinezza e dunque le sue ore preziose – giacché non di rado il passato e la giovinezza possono anche essere stati tremendi e da dimenticare.
Quelli, invece, erano davvero anni eroici per la Moda, e non certo per ragioni di età o generazionali.
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Poiché insieme vedemmo sorgere Titani, levarsi torri di luce, alzarsi magnificenza e perfezione, senza pari.
E lei era ed è lì, custode di quei giorni e di tutti i loro segreti.
Forte, tenace e piena d’amore per quel suo lavoro e per chiunque lo svolga, con identica fermezza, accanto a lei.
Gianni Versace, Valentino Garavani, Giorgio Armani e Gianfranco Ferrè. 5
“Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.”
Nulla è più vero.
Anche se, c’è da giurarci, Barbara Vitti sarebbe stata capace di trasformare anche quel terribile Calogero Sedara in un autentico, vero stilomane. Se non in un Gattopardo.