LA CANNES DEI GIUSTI – “RAPITO” DI MARCO BELLOCCHIO È UNA GRANDE E BELLA SORPRESA CHE ILLUMINA UN FESTIVAL BEN AL DI SOTTO DELLE ASPETTATIVE. E PUÒ PUNTARE A QUALCHE PREMIO DAVVERO IMPORTANTE - CI SEMBRA QUASI, COME MODELLO DI RACCONTO, DI TECNICA E DI TEMI, UN IDEALE PROLUNGAMENTO DI “ESTERNO NOTTE”. LÌ IL CUORE DELLA STORIA ERA IL RAPIMENTO DI ALDO MORO, QUI IL RAPIMENTO DI UN BAMBINO EBREO DI SEI ANNI NEL CUORE DELL’800 DA PARTE DELLA CHIESA – VIDEO
Marco Giusti per Dagospia
Primo film italiano in concorso a Cannes, “Rapito” di Marco Bellocchio è una grande e bella sorpresa che illumina un festival ben al di sotto delle aspettative e può puntare in tutta coscienza a qualche premio davvero importante. Anche perché dimostra questa incredibile fase del regista, con punte di melodramma fiammeggianti e operistiche di grande tradizione italiana perfettamente inserite in una grande messa in scena artigianale, frutto anche del lavoro che da anni tutto il suo team, artistico e produttivo, ne hanno fatto una sorta di miracolo se non un brand cinematografico.
Una macchina talmente perfezionata che “Rapito” ci sembra quasi, come modello di racconto, di tecnica e di temi, la lotta dell’uomo schiacciato dagli ingranaggi del potere, politico o religioso poco cambia, un ideale prolungamento di “Esterno notte”. Lì il cuore della storia era il rapimento di Aldo Moro nel cuore del 900 in un’Italia che vedeva il potere democristiano per la prima volta messo fuori gioco, qui il rapimento di un bambino ebreo di sei anni nel cuore dell’800 da parte della Chiesa, dove è il potere cattolico a essere messo in scacco dal vento di rivolta che porterà all’Unità di Italia.
Sia il potente, cattolicissimo, Aldo Moro che il piccolo Edgardo Mortara (ma nelle cronache d’epoca leggo Edgardo Levi Mortara), nato ebreo e cresciuto cattolico, poco possono fare di fronte a una violenza che porterà il primo a una morte violenta e prematura e il secondo, dopo un atto di violenza, a una vita lunghissima e non qui studiato, visto che morirà novantenne in Belgio nel 1940, dove sarà come schiacciato, annullato dal peso della sua storia, così forte e complessa da farne un caso anche da vecchio.
“Rapito”, scritto da Bellocchio assieme a Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati e Daniela Ceselli, ricostruisce la vera vicenda del rapimento di Edgardo Mortara nella Bologna papalina del 1858 e la sua detenzione dorata nella Roma di Pio IX, un grande Paolo Pierobon chiamato a dare volto al potere, come nel suo Berlusconi di “1992”, come un’opera verdiana, grazie anche alla musica di Fabio Massimo Capogrossi.
E come un tableaux ottocentesco, grazie alla fotografia di Francesco Di Giacomo, che riprende i colori e la costruzione della vicenda Mortara descritta nel quadro di Moritz Oppenheim nel 1862, quasi un’istantanea dell’accaduto.
Un’opera che trova il suo crescendo quasi matarazziano (negli anni 50 il nostro cinema era così e dialogava costantemente col melodramma) nella incredibile scena dell’incontro a Roma tra Edgardo e la madre, una intensa Barbara Ronchi, e con la successiva umanizzazione del Cristo ligneo in croce che, liberato dai chiodi alle mani e ai piedi, riesce a scendere tra di noi.
Come a farci capire che quello che il film sta descrivendo non è tanto il rapimento del bambino e la sua possibile scarcerazione, quanto la fine del dominio del potere cattolico su un intero popolo. Un sogno di liberazione che ci riporta naturalmente al sogno di liberazione del Moro di “Buongiorno, notte” girato da Bellocchio ormai vent’anni fa.
Spingendo il melodramma fino a quel punto, e fino a lì trovo il film meraviglioso, e per Bellocchio non è semplice poter andare avanti verso un terzo atto con una storia altrettanto forte e simbolica. Anche perché se l’Edgardo Mortara bambino, interpretato dal piccolo Andrea Gherpelli, era una sorta di angelo pieno di cuore rapito dalle braccia del padre, Fausto Russo Alesi, e trascinato alla corte di Pio IX, , l’Edgardo giovane prete, interpretato da Leonardo Maltese, non si sa più chi sia, cattolico ma anche ebreo, attaccato al Papa, ma pronto anche a rinnegarlo.
Diventa così un personaggio di giovane alla Bellocchio, un Lou Castel, un rivoluzionario rinnegato. Anche se ha modo di mostrare il suo volto peggiore nel cercare inutilmente di convertire la madre sul letto di morte, perché così è stato rimodellato da Pio IX. “Sono nata ebrea, morirò ebrea”.
Non sappiamo, fortunatamente, così non si possono fare confronti né dire sciocchezze, in cosa possa essere dissimile il film di Bellocchio dall’analogo progetto di Steven Spielberg di solo pochi anni fa, intitolato “The Kidnapping of Edgardo Mortara”, tratto dall’omonimo libro del dotto professore americano David Kretzer, con sceneggiatura pronta del celebrato Tony Kushner e interpretato da Marc Rylance come Pio IX e Oscar Isaac, un progetto non accantonato, attenzione, ma solo rinviato.
fabrizio uni in rapito di marco bellocchio
Possiamo pensare che Spielberg e Kushner l’abbiano vista come superstoria ebrea con un bambino rapito dal Papa e cresciuto come cattolico, smuovendo magari il lato favolistico spielberghiano e la recente rilettura dei testi ebraici che può portare alla versione musical di “Brundibar” firmata da Maurice Sendak e Tony Kushner.
Cosa del tutto estranea a Bellocchio. Ma scordiamoci che uno come Kretzer, autore premio Pulitzer anche di un libro sui rapporti tra Mussolini, Hitler e Papa Pio XII, non abbia fornito l’adeguata solidità storica sull’Italia dell’800 e sul potere del Papa.
Può darsi che la storia di Mortara racchiuda qualcosa di controverso che possa essere non gradito alla comunità ebrea internazionale. A cominciare dal suo non volere tornare ebreo. Certo. Per Bellocchio, autore che ha attraversato laicamente tutto il nostro Novecento, ragionare sul rapimento del piccolo Mortara inserendolo totalmente dentro la storia dell’Unità d’Italia e il crollo del potere della Chiesa, dentro le contraddizioni di un paese cattolico che non si è ancora del tutto liberato né dai chiodi del martirio di Cristo, né dall’ascesa di Mussolini, né dai sensi di colpa della morte di Moro e della fine della Democrazia Cristiana per avere in cambio prima Berlusconi poi il post-fascismo meloniano, senza cadere nel bozzettistico romano alla Gigi Magni, o alla “Marchese del Grillo” con gli “ebreucci” alla Riccardo Billi (ricordate?), è un’impresa epica e del tutto diversa.
Un’impresa che riesce a controllare perfettamente grazie a una macchina cinema produttivamente di altissimo livello, a uno strepitoso cast di attori che si porta dietro da qualche anno come fosse una compagnia teatrale, oltre a Alesi, Ronchi, e al ronconiano Pierobon ricordiamo Fabrizio Gifuni che fa il terribile inquisitore Feletti, Filippo Timi e un mai visto così bravo Paolo Calabresi. In sala dal 25 maggio.