IL CINEMA DEI GIUSTI - CON L’ULTIMO FILM DI MAZZACURATI, “LA SEDIA DELLA FELICITÀ”, SI CAPISCE CHE IL CINEMA ITALIANO HA PERSO UN AUTORE CHE VOLEVA DESCRIVERE LA REALTÀ CON UNA SUA FORZA POETICA

Marco Giusti per Dagospia

La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati.

12. 13. 8. Altro che la sequenza numerica di Fibonacci. Il numero delle sedie protagoniste delle tante versioni cinematografiche (almeno venti?) che si sono girate traendo ispirazione dal celebre racconto di Ilf e Petrov, "Dvedenadcat Stulev" ("Le dodici sedie"), uscito nel 1927, varia da film a film.

Ma tra una versione cecoslovacca (Martin Fric e Michal Waszynski, 1933), una addirittura nazista (E. W. Emo, 1938), una brasiliana con Oscarito (Franz Eichhorn, 1957), una cubana (Tomas Gutierrez Aléa, 1962), una svedese, una iraniana e varie russe e americane, brillano quella bellissima e molto classica di Mel Brooks, "Il mistero delle dodici sedie" (1970) con Ron Moody come Vorobyaninov, Frank Langella come Ostap Bender e Dom De Luise come l'avido Pope Fyodor, e quella sfortunatissima, perché fu l'ultimo film di Sharon Tate, uscito dopo la sua morte, firmata da Nicholas Gessner e Luciano Lucignani, "Una su tredici", 1969, con Vittorio Gassman e un gran cammeo di Orson Welles.

Nel film di Carlo Mazzacurati, "La sedia della felicità", che esce dopo la prematura morte del suo regista a 58 anni, che lo ha girato già molto malato, le sedie sono solo otto e non ci si premura affatto di dire che il soggetto è tratto dal capolavoro comico di Ilf e Petrov. Un capolavoro che funziona, come meccanismo narrativo, in qualsiasi situazione.

Anche se le sedie sono otto e non dodici, anche se si sposta l'azione dalla Odessa post-bolscevica degli anni '20, fra tesori nascosti dalla nobiltà in fuga, pope arraffatutto e tristi case del popolo, al nordest veneto post-bossiano, dove il nobile decaduto diventa la modesta sciampista con conti da regolare Bruna, una sempre brava Isabella Ragonese, l'ingenuo Ostap Bender il tatuatore romano con matrimonio sbagliato alle spalle Dino, un perfetto Valerio Mastandrea, e Pope Fyodor si trasforma nell'ugualmente avido Padre Weiner di Giuseppe Battiston, prima della dieta.

A differenza della Odessa di Ilf e Petrov, il nordest di Mazzacurati è presentato dallo scrittore Vitaliano Trevisan all'inizio del film come un mondo che si muove tra "Pulp Fiction" e Goldoni, un po' delinquenziale e un po' commedia, insomma. Il film seguirà questa impostazione picaresca, non vorrei dire leoniana, spostando i suoi buffi personaggi in cerca di una sedia che nasconde dentro di sé il tesoro dalla criminale Norma Pecche, una grande Katia Ricciarelli, che è spirata in carcere tra le braccia della sua estetista Bruna e del prete Weiner.

E a loro ha rivelato il suo segreto. Il tatuatore Dino, col suo buon senso e la sua carica di umanità, si troverà un po' per caso a dare una mano a Bruna alla ricerca del tesoro, che porterà i tre in viaggio per il Veneto, visto che le otto sedie sono state vendute all'asta e non si può sapere quale di queste abbia racchiuso dentro di sé il tesoro di Norma Pecche.

La situazione di ricerca e di viaggio permetterà a Mazzacurati di presentarci ancora una volta il suo Veneto e la sua città, Padova, ma anche di funzionare da grande festa dove i suoi attori e amici più cari, Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio, Silvio Orlando, Roberto Citran, compaiono per il suo ultimo film come per salutarlo.

Non è facile quindi giudicare un film che un regista ha girato, con la complicità del suo produttore di sempre, Angelo Barbagallo, come opera finale, come addio elegante e pieno di speranza alla vita. Magari non è una delle versioni migliori del romanzo di Ilf e Petrov, ma Mazzacurati si sforza di costruire con grazia le sue scene, di dipingere tutti i personaggi, penso al mago Kasimir di Raul Cremona e al suo assistente Cosimo Messeri, con intelligenza, non giocando mai sull'ovvietà. Mastandrea, Ragonese e Battiston sono delle figurine leggere e gioiose di questo viaggio alla ricerca non tanto di un tesoro, quanto del segreto della felicità.

E in questo il film è molto vicino al mondo di Ilf e Petrov e a quello del loro eroe Ostap Bender, che Mastandrea incarna come se conoscesse tutta l'opera degli scrittori russi. Uno sguardo umano sul mondo, sulle sue miserie, sugli amori, sulle avidità, ma sempre come sollevato da terra, sempre col desiderio di non dare giudizi morali, ma di osservare con affetto. Ovvio che il cinema italiano abbia visto nella morte di Carlo Mazzacurati come la scomparsa di un certo cinema d'autore post-morettiano.

Anche se quel tipo di cinema era in gran parte già superato nei successi internazionali dai più giovani Paolo Sorrentino e Matteo Garrone. Ma proprio vedendo questo film, ci pare che il nostro cinema abbia perso con Mazzacurati soprattutto un autore attento ai cambiamenti della nostra realtà e alla voglia di descriverli, con una propria forza poetica, un suo linguaggio narrativo, una sua grazia. Non era poco. In sala dal 24 aprile.

 

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