GUARDARE L’ORRORE NON CI FA PIÙ ORRORE – WILL SELF: “NON SIAMO MAI STATI ESPOSTI A COSÌ TANTE IMMAGINI DI GUERRA E VIOLENZA MA INVECE DI ESSERE STIMOLATI A REAGIRE SIAMO DIVENTATI TUTTI SPETTATORI PASSIVI’’
Articolo di Will Self per “The Guardian” pubblicato da “la Repubblica” (Traduzione di Fabio Galimberti)
Cosa si prova quando il coltello ti sgozza? Ovviamente ci hai pensato, naturalmente hai considerato il dolore, l’hai soppesato nel morbido palmo rosa della mano. Quello che ti ha turbato di più nelle ultime settimane, mentre i tuoi carcerieri diventavano più tesi, ancora più arbitrari nella loro brutalità, non è il dolore in sé, ma riuscire a comportarti bene, con dignità… con compostezza… Ma adesso, mentre smetti di parlare e lui si fa avanti per recitare il suo brano, sprezzante e sconclusionato, nulla di tutto questo ti preoccupa.
Ma no: è troppo tardi per tutto questo ormai, la sua mano ti ha afferrato i capelli. Si dice che nessun uomo possa fissare il sole o conoscere l’ora della propria morte… Questo grande, bellissimo, vasto mondo che hai portato dentro di te senza mai capire veramente cosa sia, o se coincida con il mondo di qualcun altro…
Questo mondo sta per finire… Il globo vacilla sul suo asse, capitombola nel nulla… Ecco cosa si prova quando il coltello ti sgozza… Credetemi: ci ho pensato a lungo prima di scrivere quanto sopra. Sono consapevole, credo, delle possibili obiezioni – morali, estetiche, perfino politiche – di uno sforzo per immaginare la coscienza di un ostaggio nelle mani dei terroristi dello Stato islamico durante gli ultimi secondi prima della decapitazione. Perché ho scelto di scriverlo?
Alla fine di un anno in cui il Grand Guignol ha dominato la scena pubblica, sicuramente nessuno sente il bisogno di una congettura tanto intrusiva. Non sarebbe meglio cogliere questa occasione, all’inizio di un nuovo anno, per metterci seduti, rilassarci e distogliere lo sguardo dal teatro degli orrori?
Non perché, naturalmente, non ci importi nulla di tutta questa sofferenza, di questi scorporamenti orribilmente violenti, ma perché noi stessi almeno una cosa la sappiamo: non saremo le persone più eticamente motivate, più altruiste, più dedite al prossimo in circolazione, ma non siamo come loro, non siamo come quegli uomini a Raqqa che picchiano e bruciano e lapidano e stuprano e schiavizzano e ammazzano e massacrano e fanno a pezzi: non siamo il male.
E sicuramente, nel vortice delle opinioni, su un punto almeno possiamo concordare tutti con David Cameron e Barack Obama: tagliare la testa a qualcuno è un atto di malvagità tale che necessariamente, da sé e di per sé, trasforma chi lo commette nel male, se per male si intende una negazione della volontà di assoluto, un nichilismo che si metastatizza attraverso il corpo politico in crisi lasciando lungo la sua scia nevrotica solo zombie dagli occhi vuoti incapaci di qualsiasi sentimento autentico.
Eppure mi domando se quello che ho scritto all’inizio dell’articolo sia stato uno sforzo attivo da parte mia per solidarizzare con Abdul-Rahman Peter Kassig, Alan Henning, Steven Sotloff, James Foley e David Haines negli ultimi momenti della loro vita. È stato doloroso scriverlo, perché ho dovuto cercare di mettermi nella loro testa; e forse è stato spiacevole leggerlo per la stessa ragione: ma anche leggerlo è un’azione attiva, perché per farlo avete dovuto tradurre segni sulla pagina o sullo schermo in idee, immagini e sensazioni. Qualcuno ha fatto tentativi simili per comprendere queste azioni perverse e malvagie, ma in generale la nostra risposta alla crisi degli ostaggi che si è dipanata per tutto il 2014 è stata necessariamente passiva.
L’onnipresenza dell’immagine nelle nostre vite, e la nuova ontologia dell’immagine, descritta per la prima volta dal filosofo Jean Baudrillard negli anni Ottanta e da lui definita “simulazione”, è il palcoscenico in cui Jihadi John e gli altri assassini dello Stato islamico hanno fatto il loro tronfio ingresso. Baudrillard sosteneva che con una diffusione così ampia di immagini, e con reazioni così istantanee a queste immagini da parte nostra, era nato un nuovo ordinamento mondiale della realtà, l’iperrealtà.
La decapitazione raffazzonata di Lee Rigby può essere stata un trailer, ma il terreno per l’iperrealtà vera e propria, quando è arrivata, era già pronto: il 19 agosto è stato assassinato James Foley, il 2 settembre è stato assassinato Steven Sotloff, intorno al 13 settembre è stato assassinato David Haines, il 3 ottobre è stato assassinato Alan Henning e intorno al 16 novembre è stato assassinato Peter Kassig: lo sappiamo perché i propagandisti dello Stato islamico, indipendentemente da altre dissimulazioni che forse mettono in atto, non hanno ragione per mentire su queste atrocità orchestrate in modo estremamente pubblico.
Anzi, la scelta di tempo delle minacce di uccidere questi uomini, delle richieste che le accompagnavano (indirizzate a Obama e a Cameron) e del successivo caricamento sulla Rete dei video della loro fine è stata tale che uno spettatore traviato di informazione avrebbe quasi potuto essere giustificato – tanto siamo abituati a vedere sofferenze fittizie – a pensare che si trattasse di un reality ambientato nel deserto invece che nella giungla.
L’isola degli ostaggi dello Stato islamico è uno di quegli spettacoli che ti tengono avvinto allo schermo: certo, nessuno ha avuto modo di vedere le schifezze che hanno dovuto mangiare, nessuno ha ascoltato direttamente e in tempo reale la loro umiliazione, ma il punto importante è che nessuno che abbia seguito con attenzione poteva dubitare in alcun modo che queste cose succedessero effettivamente.
Ma la domanda è rimasta: una persona consapevole, compassionevole e impegnata dovrebbe guardare questi video? Un motivo per vedere le atrocità potrebbe essere una ricerca di convalidazione morale: sì, tutto questo mi ripugna veramente e completamente; e sono indiscutibilmente in grado di capire la differenza fra questo e l’intrattenimento: ergo, come volevasi dimostrare, sono una persona per bene.
Ma qualsiasi tentativo di far rientrare le decapitazioni in un calcolo etico del genere va a sbattere in faccia… alle nostre facce sconcertate. Perché ci eravamo già messi alla prova con il video della decapitazione di Daniel Pearl nel 2002, e se avessimo avuto qualche inquietudine sul rapporto tra rappresentazioni fittizie e reali di questa atrocità, c’è stato un lungometraggio del regista Michael Winterbottom uscito nel 2007.
Perfino il militante di Al Qaeda che parlava fuori campo nel video dell’omicidio di Pearl era più che consapevole di questo nostro imbarazzo, quando ammoniva gli spettatori che se i loro governi non avessero accolto le richieste dei terroristi (in quel caso per il rilascio dei prigionieri di Guantanamo) scene del genere si sarebbero ripetute «ancora e ancora».
E la nostra è la cultura della ripetizione, del fermo immagine e della sequenza di azione al rallentatore: la nostra è la civiltà avanzatissima che ha sviluppato la capacità di sistemare una telecamera sul naso di una bomba a guida laser, per permetterci, come il maggiore “King” Kong interpretato da Slim Pickens nel Dottor Stranamore di Stanley Kubrick, di “cavalcare”, anche se virtualmente, l’ordigno giù fino al suo bersaglio selezionato dal computer.
Che cosa pensiamo quando vediamo un uomo che sta per essere decapitato? Perché questa particolare forma di esecuzione ci disturba e disgusta così tanto? Non è altrettanto malvagio qualsiasi tipo di omicidio premeditato? E la sofferenza implicita nell’omicidio stesso può mai sminuire la colpa dell’assassino?
Se la verità è la prima vittima della guerra, allora la seconda vittima è senz’altro la convinzione: non riesco a pensare che tutti gli uomini in nero che si esibiscono davanti all’occhio della telecamera nel deserto siriano siano credenti sinceri. Secondo gli ostaggi che sono stati liberati, il Jihadi John dall’accento inglese è il capo di una piccola banda di jihadisti nati in Occidente, che laggiù fanno i carcerieri e producono video; un grottesco evento marginale di tutta la faccenda è che i suoi complici sono stati soprannominati, com’è ovvio, Paul, George e Ringo. John stesso appare fortemente ideologizzato, intelligente e (questo probabilmente non c’è bisogno di dirlo) brutale.
Oltre a orchestrare l’umiliazione, la tortura e l’esecuzione degli ostaggi, Jihadi John era quello che aveva il compito di negoziare con i potenziali pagatori di riscatti: ed è quando agiva in questa veste, sicuramente, che qualsiasi motivazione religiosa per le sue azioni deve essersi dileguata per lasciare il posto ai precetti iperreali del simulacro di Baudrillard. Eppure, quando vediamo un uomo che sta per essere decapitato, ciò che proviamo è senza dubbio la recrudescenza della visione del mondo giudeo- cristiana che dorme dentro di noi.
L’idea che la testa sia la sede della ragione è pressoché universale nelle culture umane, ma forse soltanto in Occidente siamo così affezionati alla concezione della nostra testa come ricettacolo di una realtà non materiale più importante del mondo esterno. Questo dualismo magari non è più legato alla fede religiosa, ma rimane un elemento fondamentale per la tradizione filosofica occidentale, al punto che quando fissiamo il nostro sguardo su quelle teste vulnerabili non possiamo fare a meno di sospettare che i malvagi Beatles dello Stato islamico intuiscano i nostri pensieri e cuciano su misura per noi e noi soltanto la loro grottesca messinscena.
Oggi in Occidente ponderiamo ancora di più e agiamo ancora di meno. Le forze armate statunitensi (con quelle britanniche sempre a rimorchio) castigano gli ottenebrati del Medio Oriente mentre noi stiamo seduti a guardare. Il rifiuto dei nostri governi di spingersi fino alle estreme conseguenze e governare effettivamente le popolazioni che cercano di soggiogare è senz’altro un correlato della nostra passività: loro, come noi, preferiscono contemplare un simulacro di imperialismo che fare imperialismo vero.
La collisione tra la violenza più primitiva e viscerale e i mezzi di informazione più all’avanguardia ci rende particolarmente inquieti: da quando sono cominciate queste decapitazioni, la twittersfera si è riempita di cinguettii sull’uso “sofisticato” delle inquadrature e le competenze informatiche dello Stato islamico. È come se enfatizzando l’elevata qualità di questi snuff movie riuscissimo in qualche modo a riportare i loro autori all’interno del nostro mondo pixelato, a trasformarli in un gruppo di internettari innovativi fra i tanti.
Nelle decine di articoli o servizi televisivi che ho letto o sentito a proposito delle decapitazioni, l’importanza che veniva data agli aspetti tecnologici dei filmati era enorme; ma tutto questo è senz’altro indice del nostro disagio: sappiamo che dovremmo uscire di più; sappiamo che dovremmo smetterla di starcene seduti a fissare, commutare, scorrere schermate, battere tasti. I jihadisti ci girano, fra la gente, e si portano dietro l’iPad: l’uso del web per radicalizzare giovani musulmani britannici e reclutarli alla causa è un fatto incontrovertibile: se il mezzo è il messaggio, il messaggio in questo caso è un generale offuscamento dei confini tra virtuale e reale, tra pensieri e parole, tra parole e azioni.
Anche noi fissiamo il riflesso delle nostre teste delineato sullo schermo, poi clicchiamo sul bottone e il riflesso si dissolve in un’altra immagine di un’altra testa che sta per essere decerebrata. Guardiamo dentro l’abisso del male anche se l’abisso guarda dentro di noi.
Nel 1991 Baudrillard scriveva: «L’ostaggio ha preso il posto del guerriero. È divenuto l’attore principale, il protagonista del simulacro, o meglio, nella sua pura inattività, il protagonista della non-guerra». Rispondendo alle nuove opportunità di affari offerte dal web, i terroristi dello Stato islamico concepiscono i loro ostaggi prima di tutto e soprattutto come merci: la funzione primaria dei loro video non è quella di un ributtante infotainment né quella di una dichiarazione ideologica, ma quella di strumento per facilitare lo shopping online («Visto che avete pagato per il rilascio di quest’ostaggio, abbiamo pensato che potrebbe interessarvi pagare anche per quest’altro»).
Guardandolo in quest’ottica, il sadico dilazionamento delle uccisioni delle vittime è semplicemente quel che detta il mercato, considerando la comprovata elasticità della nostra domanda per la loro sopravvivenza.
L’Occidente non esternalizza soltanto la sua violenza, assume anche appaltatori privati per fare il lavoro sporco al posto suo, mentre attraverso lo specchio Al Qaeda, lo Stato islamico e gli altri gruppi terroristici wahhabiti offrono il loro marchio in franchising a qualunque banda di stupratori omicidi (o giovani musulmani inglesi riottosi) che ne faccia richiesta. Ma nonostante questo impulso imprenditoriale, e le tasche figurativamente senza fondo delle dishdasha dei loro sostenitori sauditi, c’è un limite ben preciso alla quantità di territorio che lo Stato islamico è in grado di controllare, e questo limite più o meno è già stato raggiunto.
Avete visto i video caricati in Rete dallo Stato islamico, che mostrano le decapitazioni di Peter Kassig, Alan Henning, Steven Sotloff, James Foley e David Haines? Non è una domanda scontata, perché il mio sospetto è che voi apparteniate a uno dei seguenti tre gruppi:
1) quelli che sono deliberatamente andati a cercarsi queste immagini violente e se le sono gustate con diletto;
2) quelli che hanno deliberatamente evitato questo materiale ripugnante;
3) quelli che non se le sono andate a cercare, ma guardando regolarmente notiziari e filmati informativi hanno l’impressione di aver visto i video, almeno nelle linee generali.
Eppure, per quello che ne so, nessuno dei video mostra effettivamente la decapitazione di questi uomini, se intendiamo con ciò una sequenza continua in cui la lama sega il collo da parte a parte: dopo la concione dei sequestratori, la “dichiarazione” dell’ostaggio e l’inizio della decapitazione, il video stacca sull’immagine di un cadavere senza testa steso in avanti e con una testa mozzata poggiata sulla schiena. Non posso esserne sicuro, perché appartenendo al gruppo 3) non ho fatto nessuno sforzo per vedere il video nella sua interezza, ma nemmeno quelli del gruppo 1) lo hanno visto: eppure siamo tutti convinti di averlo fatto, tanto siamo abituati a provvedere i fattori mancanti di queste equazioni dell’atrocità.
David Haines in mano al suo carnefice
Riempire le caselle mancanti è quello che facciamo nelle nostre teste recise; e le nostre teste sono effettivamente recise: viviamo in un reame disincarnato, incapaci di muoverci e tantomeno di agire, dove ci limitiamo a esercitare il nostro diritto inalienabile a sentirci scandalizzati.
Anche solo essere costretti a guardare per un paio di minuti per solidarizzare attivamente con la sorte di questi uomini è stato troppo per noi: non vogliamo la responsabilità che inevitabilmente comporta, è troppo disagevole, ci costringe a pensare, potrebbe addirittura obbligarci ad agire. Io non accetto l’invito dello Stato islamico a decapitare la gente perché non ho nessun desiderio di collusione con il loro scopo malvagio, o con gli scopi scellerati di quelli che nominalmente lo combattono ma storicamente sono stati fin troppo zelanti nel fomentare l’islamismo violento.
David Haines in mano al suo carnefice
Non guarderò le decapitazioni perché so che se lo facessi diventerei consapevole del nostro isolamento, inginocchiati nel nostro deserto virtuale, acutamente consapevoli degli occhi del mondo su di noi, testimoni beffardi del nostro solipsismo, confinati come siamo nelle nostre teste sovraffollate… Ecco cosa si prova quando il coltello ti sgozza…