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ECCO COME I GIORNALI HANNO REAGITO ALLA “BREXIT” - PER “THE TELEGRAPH” E’ UNA “LIBERAZIONE DAI CARCERIERI” - CUPO IL “FINANCIAL TIMES”: “PUÒ ESSERE LA FINE DEL REGNO UNITO” - “THE GUARDIAN” CENTRA IL PUNTO: “E’ STATA DETERMINANTE L’IMMIGRAZIONE” - LA PAURA DI AMERICANI, TEDESCHI E FRANCESI

Davide Casati e Luca Zanini per www.corriere.it

 

THE TELEGRAPH, LA «LIBERAZIONE DAI CARCERIERI»

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«Il Paese ha avuto quella discussione aperta, e onesta, su sovranità, identità nazionale, rapporto con il resto del mondo e — ovviamente — immigrazione che da tempo gli era dovuta. Questo referendum deve essere fonte di orgoglio». Il Telegraph è — tra i quotidiani di qualità britannici — quello che più alta ha levata la sua voce a sostegno della Brexit. Dalle sue colonne Boris Johnson, allora ancora sindaco di Londra, ha lanciato il suo manifesto per l’addio.

 

E oggi — con un editoriale della redazione, e un fondo di Tim Stanley, che parla del «giorno della liberazione dai carcerieri di Bruxelles» — proclama una vittoria forse insperata. «Il Parlamento si è dimostrato incapace di prendere una decisione su un tema simile. Ed è toccato allora alla popolazione farlo. La Gran Bretagna sta cambiando, dobbiamo trovare il modo di gestire quel cambiamento. E il governo deve ascoltare le legittime preoccupazioni di coloro che, da questi cambiamenti, sono toccati. La Gran Bretagna ha dimostrato che le persone devono avere l’ultima parola. Ed è questa l’essenza della democrazia».

BREXIT BATTAGLIA NAVALE TAMIGIBREXIT BATTAGLIA NAVALE TAMIGI

 

FINANCIAL TIMES, «UN VOTO CHE POTREBBE SEGNARE LA FINE DEL REGNO UNITO

«Da dove partire?». A volte persino gli analisti più formidabili dei quotidiani più formidabili del pianeta sono colti di sorpresa dagli eventi. E lo mettono per iscritto (perché sono formidabili), nell’attacco di un pezzo destinato agli archivi, e alla storia. Philip Stephens attacca proprio così — con quella domanda, «da dove partire?» — l’analisi del Financial Times sul terremoto referendario. E trova la risposta in una frase secca: «Questo voto ha cambiato tutto».

 

BREXIT OSBORNE GELDOF FARAGEBREXIT OSBORNE GELDOF FARAGE

«Nel corso di una sola notte, decisioni di politica estera ed economica messe a punto in quasi mezzo secolo sono state rovesciate. L’establishment politico viene scosso da una rivolta contro le elite. Il Regno unito è diviso; l’Inghilterra stessa è divisa tra le città e le provincie post industriali.

 

Un voto contro la globalizzazione. Una decisione che indebolisce l’Europa e l’Occidente. L’espressione “terremoto politico” è un understatement». Il voto contro l’Unione europea — che, «per quanto piena di difetti, era lo strumento attraverso il quale la Gran Bretagna poteva fare la differenza nel mondo» — «potrebbe essere un voto contro il Regno Unito: perché a volere la Brexit erano i nazionalisti inglesi, mentre la Scozia e l’Irlanda del Nord, come Londra, volevano rimanere nell’Ue».

 

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Certo, «Cameron dovrà andarsene». E lo shock politico arriverà ben oltre le sponde della Manica, e dell’Atlantico. «Le ondate populiste si vedono crescere in molti Paesi europei, e in America. L’ordine politico seguito alla Seconda Guerra mondiale è soggetto a uno sforzo mai visto». Il risultato sarà devastante: «La gran Bretagna sarà più povera e debole. Il mondo non appartiene più all’Occidente. La libertà, la democrazia, il potere della legge sono sotto attacco. Quanto tempo passerà prima che arrivi il rimorso per questo voto?».

 

THE GUARDIAN, «IL FATTORE DETERMINANTE? L’IMMIGRAZIONE»

Decenni di euroscetticismo, e di ribellioni ministeriali. L’immigrazione: quella reale, e ancor più quella percepita. Il fattore-Ukip, sottovalutato da una scommessa ben oltre i limiti dell’azzardo di David Cameron. E un progetto «mai abbracciato con sincerità, e appieno». Il Guardian — voce, nel deserto, per il Remain — affida alla corrispondente politica Rowena Mason il compito di mettere in fila i fattori che hanno determinato lo schiaffo all’Unione europea.

IL SUN SI SCHIERA PER LA BREXITIL SUN SI SCHIERA PER LA BREXIT

 

Fattori che affondano le loro radici non in quattro mesi di campagna elettorale «cocciuta», e violenta: ma in decenni di scetticismo esibito, «rimasto sempre lì, nella buona e nella cattiva sorte». Perché il tentativo di uscire dall’Ue è nato il giorno stesso dell’adesione di Londra nel mercato comune europeo, nel 1973.

 

A spingere per l’uscita era il Labour, allora. E vestigia di quell’atteggiamento si trovano nelle dichiarazioni della vigilia di Corbyn. Il fattore determinante per il risultato di oggi sta nell’immigrazione, scrive il Guardian. E quanto fatto da Cameron — e dall’Ue, con le negoziazioni pre-voto — è stato «too little, too late». Troppo poco, troppo tardi.

 

TWITTER, «UNA GENERAZIONE HA SCELTO PER L’ALTRA»

Ben Riley-Smith è una delle firme di punta del Telegraph: come scritto sopra (e come sottolineato dai suoi detrattori, che lo chiamano «Torygraph») non esattamente un giornale favorevole alle ragioni del «Remain». Ma è lui ad aver twittato uno dei dati più importanti del referendum che si è tenuto ieri. Il dato arriva da YouGov, e testimonia la frattura generazionale, profondissima, che ha preso corpo nelle urne.

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Il 75 per cento degli under 24 ha votato contro la Brexit. Il 56 per cento degli under 49 ha fatto lo stesso. Sono gli ultracinquantenni — e in particolare gli ultrasessantacinquenni — ad aver votato in maggioranza per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Timore, sconforto, nostalgia per un passato di cui è difficile ipotizzare il ritorno? Riley-Smith non dà giudizi, riporta solo dati. Quelli di una generazione che ha deciso per un’altra, e per quelle future.

 

POLITICO EUROPE E FINANCIAL TIMES: COME FUNZIONA (TECNICAMENTE) IL DIVORZIO PIÙ COMPLESSO DELLA STORIA

«Il divorzio più complesso della Storia». Non c’è enfasi, solo il senso di spaesamento di fronte a un sentiero sconosciuto, mai battuto da alcuno prima (ma che potrebbe essere battuto da altri, in futuro), nel titolo del Financial Times e di Politico Europe. Dal punto di vista legale, il referendum di oggi non implica immediatamente l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue.

THE SUN REGINA BREXITTHE SUN REGINA BREXIT

 

Ci sono quattro strade che il governo britannico può scegliere di percorrere: quella dell’Articolo 50 dei Trattati europei (che dà ai Paesi «due anni per negoziare l’uscita», con dettagli sull’accesso al mercato unico europeo tutti da decidere); quella di colloqui informali prima di far partire il calcolo dei due anni contenuto nell’articolo 50; la revoca unilaterale dell’atto parlamentare con cui Londra aderì al Mercato comune europeo e un atto di forza usando la legge internazionale. Quale di queste strade il governo britannico deciderà di prendere, non è ancora chiaro.

 

Il rischio, però, è quello di un «hard landing», un atterraggio durissimo. Perché non è certo che i Paesi europei siano pronti a garantire a Londra, in tempi rapidi, l’accesso al mercato unico (basti una dichiarazione su tutte, quella del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). «Di sicuro ci sarà un “salto”», ha detto un diplomatico europeo al Financial Times. «È semplicemente impensabile che un accordo sia pronto in due anni». I fautori del Leave sono convinti che alla fine prevarrà il buonsenso. La loro scommessa era basata anche su questo. Saranno le cancellerie europee a dire se sarà vincente, o meno.

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FOREIGN AFFAIRS: E SE INVECE LA BREXIT FOSSE UN MALE PER IL REGNO UNITO MA UN TOCCASANA PER RILANCIARE L’EUROPA UNITA?

(Luca Angelini) [Avevamo segnalato questo articolo nella rassegna stampa di due giorni fa. Ma — assieme a quello di Politico Europe intitolato «Europe’s Brexit greetings: Sorry and good riddance» — è perfetto da rileggere oggi. Perché il voto sulla Brexit non è affatto, secondo molti in Europa, un disastro: ma un’occasione]. L’articolo su Foreign Affairs di Camille Pecastaing, professore associato alla Johns Hopkins University, era provocatorio fin dal titolo: «Please leave» («Per favore, vattene»).

 

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E il succo è, più o meno, questo: non è affatto detto che la Brexit sia un bene per il Regno Unito, ma di certo lo è per l’Unione europea. Perché, è la tesi di Pecastaing, Londra, con le sue continue richieste di eccezioni e esenzioni (fuori dall’euro, fuori da Schengen e da non pochi impegni comunitari) è sempre stata una zavorra per Bruxelles, sempre pronta a «aggiungere chiodi nella bara del federalismo» e a trasformare «un progetto che aspirava a una forte unione politica in niente di più che un libero mercato in continuo allargamento». Perciò, per come la vede lui, con il referendum «gli inglesi, che hanno intralciato l’Europa per decenni», hanno avuto «la possibilità di lasciarla libera».

 

Libera di diventare più simile agli Stati Uniti, «una nazione che accetta che le tasse della California paghino le scuole pubbliche nel Mississippi». Una logica redistributiva «della quale i greci hanno abusato e gli inglesi hanno negato. Ed è per questo che l’Europa starebbe meglio senza entrambi». Detta in modo ancora più brutale: «la Brexit potrebbe essere la cosa migliore per l’Europa dalla caduta del muro di Berlino».

 

THE NEW YORK TIMES, «LA PRIMA NAZIONE A USCIRE DAL BLOCCO EUROPEO»

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L’effetto domino che gli Stati Uniti temono sta tutto lì, in quell’aggettivo. «La Gran Bretagna vota per uscire dall’Unione europea: è la prima nazione a uscire dal blocco». Così il New York Times accoglie l’esito del voto: e inizia a preparare gli statunitensi alle onde sismiche di un terremoto politico e finanziario che, dal lato orientale dell’Atlantico, arriverà fino a quello occidentale, percorrendo la strada opposta a quella di 8 anni fa.

 

Il quotidiano indica nel «fallimento dell’Unione europea nel rispondere a una serie di crisi, dal collasso finanziario del 2008 al ritorno della Russia, e al massiccio influsso di migranti» la radice di questo voto. «Il risultato sarà un disordine massiccio nel sistema europeo, che si protrarrà almeno per due anni», commenta Karl Kaiser, professore ad Harvard.

 

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Le conseguenze politiche si diffonderanno nel resto dell’Europa, con «partiti anti-establishment e di estrema destra, come il Front National di Marine Le Pen in Francia, il partito di Geert Wilder in Olanda e l’Alternativa per la Germania» pronti a celebrare il risultato. L’ondata populista è destinata a diventare economica, «colpendo migliaia di persone». Se ci saranno conseguenze anche per il voto negli Stati Uniti — Donald Trump è oggi in Scozia — è presto per dire. Ma questa, anche per New York, è la giornata della paura.

 

LE PARISIEN, NOUVEL OBS, REUTERS: LA FRANCIA CHE AVEVA RIFIUTATO LA COSTITUZIONE EUROPEA SI PREPARA A PAGARE IL CONTO PIÙ ALTO DELLA BREXIT

«La #Brexit è il triste risultato di un’Europa debole, della mancanza di una leadership della Francia e di un asse franco-tedesco in sofferenza», così su Twitter — riporta il quotidiano francese Le Parisien — il presidente della Region Paca, Christian Estrosi (esponente del partito di Sarkozy), commenta il risultato del referendum britannico, attaccando implicitamente il presidente Hollande.

 

Intanto su Reuters e Nouvel Obs, Marine Le Pen invoca un immediato referendum francese sull’Unione Europea: «È stata una vitoria della libertà! — scrive la leader del Front national (anche lei su Twitter) —. E adesso, come chiedo da anni, occorre organizzare lo stesso referendum in Francia e negli altri Paesi dell’Ue».

 

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Le fa eco sul Pariesien Florian Philippot, vice presidente dell’Fn ed eurodeputato: «Siamo molto soddisfatti di questo voto: per gli inglesi, ma anche per il futuro del nostro Paese». Secondo Philippot, il referendum «significa la fine dell’Unione europea... Vorrei per la Francia, lo stesso referendum». Mentre l’ex primo ministro Jean-Pierre Raffarin scrive (ancora una volta su Twitter: «Immensa tristezza, reale preoccupazione. Ci vorrà coraggio per combattere lo sfaldamento (dell’Ue)».

 

FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG: «DANNAZIONE, UNA BRUTTA GIORNATA PER L’EUROPA»

«Lo hanno detto la Bbc e poi Sky News e Itv dopo il conteggio del 90% dei voti. E comunque alle 6 e 30 di stamane il sì degli inglesi alla Brexit era in testa di circa un milione di voti», scrive stamane il quotidiano tedesco Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung). I fautori dell’uscita dall’Unione «hanno raccolto un numero impressionante di voti soprattutto nel Nordest del Regno Unito e nel Galles».

 

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In risposta alla scelta dei britannici, i titoli delle banche di Sua Maestà «sono crollati con percentuali di perdita spesso vicini alla doppia cifra». «Tutti i sondaggi erano sbagliati», osserva la Faz, sottolineando l’affluenza alle urne per il referendum «vicina al 72%, molto di più di quel 66,1% registrato alle ultime elezioni politiche nel Regno Unito», ma lontana dall’affluenza degli scozzesi al loro referendum per l’indipendenza (negata) nel 2014: l’84,6%. Secondo la primo ministro scozzese Nicola Sturgeon, «adesso la Scozia sceglierà come restare nell’Ue». Per la Faz, «ora le dimissioni di Cameron sono più che probabili» e l’Unione Europea «potrebbe precipitare nella peggior crisi della sua storia». Su Twitter il ministro dell’Economia tedesco Sigmar Gabriel (Spd) ha scritto: «Dannazione, una brutta giornata per l’Europa».

 

NU: «L’OLANDA PAGHERÀ IL PREZZO PIÙ ALTO DELLA BREXIT»

La decisione della Gran Bretagna che ha scelto di lasciare l’Unione europea «colpirà duramente l’economia olandese». Lo sottolinea il quotidiano online olandese Nu, ripubblicando un’analisi economica di qualche settimana fa sotto al titolo di giornata «Fautori della Brexit euforici, giorno triste per gli avversari». «Via il Regno Unito ci sentiremo più soli, spiega la società di consulenza globale Counsel», ricorda il giornale, che illustra i risultati di una ricerca sulle possibili conseguenze della Brexit nel Paesi Bassi (membro dell’Ue del 1958).

 

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«Le aziende olandesi hanno investimenti per 177 miliardi di euro nel Regno Unito. Investimenti che hanno prodotto nel 2013 utili per 9 miliardi di euro, pari all’ 1,5 per cento del prodotto interno lordo olandese». Aziende come Unilever, Shell e Phillips hanno forti legami con il mercato del Regno Unito. E nel 2013, le aziende olandesi hanno esportato beni per un valore di 49 miliardi in UK, con un conseguente surplus commerciale di quasi 7 miliardi.

 

Non c’è dubbio, l’uscita di Londra dall’Unione europea avrà conseguenze drammatiche per l’economia dell’Olanda. Senza contare che nel Consiglio europeo, senza il Regno Unito Amsterdam perde un alleato del blocco liberale, un importante partner politico. E il giornale non cita l’altro problema: il leader dell’estrema destra olandese, Geert Wilders, ha chiesto ufficialmente un referendum anche nel suo Paese, «Ora è tempo di un nuovo inizio, anche nei Paesi Bassi».

 

SOUTH CHINA MORNING POST: «È BREXIT»: E LE BORSE CINESI PRECIPITANO

I vertici della Borsa di Hong Kong si erano detti «preparati» all’eventualità che la Gran Bretagna decidesse di lasciare l’Unione Europea. Ma nessuno poteva essere davvero preparato alla disastrosa reazione dei mercati orientali, che il South China Morning Post fotografa così: «Precipita l’indice Hang Seng, e il verdetto delle urne che ha spinto la sterlina ai minimi storici sta scioccando i mercati di tutto il mondo dopo che gli exit poll avevano dato per probabile la vittoria del remain».

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Nell’ex colonia britannica è da poco passato mezzogiorno quando il sito del quotidiano del miliardario Jack Ma (fondatore di Alibabà) aggiorna i suoi articoli con il resoconto di una mattinata di panico nelle Borse asiatiche. «L’indice Hang Seng è sceso di circa 1.000 punti subito dopo che la Bbc aveva annunciato il sorprendente risultato, con più di 320 su 382 collegi scrutinati».

 

Questa mattina, intorno alle 5 italiane, «il voto per lasciare l’Ue totalizzava il 51,5% a livello nazionale, contro il 48,5%». Giacché i mercati si aspettavano un voto per il «remain», la sterlina è andata a fondo dopo che giovedì, a urne aperte, aveva raggiunto rialzi notevoli alla Borsa di Hong Kong. Appena resa nota la vittoria dei no all’Unione, la valuta di Londra «è subito scesa del 9%, a 1,3466 dollari, il livello più basso dal 1985». L’Hang Seng Index (HSI) ha perso il 4,7%, l’oro è salito del 5, i future sul petrolio sono crollati del 6% a meno di 50 dollari a barile».

 

BLOOMBERG: «LA STERLINA AI LIVELLI PIÙ BASSI DEGLI ULTIMI 30 ANNI

Bloomberg dedica decine di articoli alla Brexit, ma uno in particolare fotografa con la freddezza degli indici di Borsa quanto è accaduto e sta per accadere sui mercati: «La sterlina sta facendo la storia», scrivono Lukanyo Mnyanda e Lucy Meakin commentando uno spaventoso grafico con la curva dei cambi a precipizio, e raccogliendo i commenti disperati degli operatori: «Sono entrato alla City nel 1980 e non ho mai visto nulla di simile — dice Chuck Sé, responsabile del dipartimento Investimenti della iSectors LLC — cose come questa ti capitano una sola volta nella vita».

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O almeno così sperano in molti. Ma l’andamento dei futures e dei titoli bancari sul mercato del Regno Unito non concedono di farsi illusioni. «Il tuffo a capofitto della sterlina (oltre il 10 per cento di perdite), venerdì, segna il giorno peggiore della sua storia» e in molti tracciano un parallelo «con la perdita di 4,1 per cento del black Wednesday del ‘92, quando la valuta britannica fu costretta ad uscire dal meccanismo di cambio europeo». «Ci sono giorni che non si dimenticano — sentenzia David Bloom, stratega di Hsbc per il mercato valutario — e questo è uno di quelli. È un ottovolante».

 

THE ECONOMIST: NO, L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NON DISTRUGGERÀ L’UMANITÀ

bob geldof yacht sul tamigi per il no alla brexit  2bob geldof yacht sul tamigi per il no alla brexit 2

Una settimana fa c’era stato l’appello a votare contro la Brexit: che i sudditi di Sua Maestà paiono — almeno mentre scriviamo queste righe — non aver ascoltato. Questa settimana, invece, sulla copertina dell’Economist finisce l’Intelligenza artificiale: e ad ascoltare dovrebbe essere l’intera società umana, alle prese con una rivoluzione di portata epocale.

 

Secondo il magazine della comunità finanziaria globale, infatti, dopo decenni di promesse mancate, l’IA sta compiendo passi da gigante: quelli che l’edizione americana di Wired racconta semplicemente dicendo che ormai i computer non saranno più da programmare, ma da addestrare. Le macchine ora riproducono, con le loro reti neurali, i meccanismi di apprendimento degli umani: comandano i motori di ricerca di Google e le raccomandazioni di acquisto di Amazon, tanto per fare due esempi. Potrebbe, quell’intelligenza, diventare malvagia? Uno scenario fantascientifico. Potrebbe togliere il lavoro a molti? A ritenerlo sono parecchi studiosi.

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Non l’Economist: secondo cui la tecnologia ha sempre portato alla creazione di più posti di lavoro di quelli cancellati. C’è un però: perché questo accada, occorre che la società si impegni. Riformando il sistema di welfare («non nel senso del reddito di cittadinanza, ma in quello della flexsecurity») per aiutare chi perde il lavoro a crearsi le competenze necessarie per diventare «domatori» di robot; ma soprattutto quello educativo, che invece, nella stragrande maggioranza dei Paesi, resta arretrato. «Non c’è un obiettivo più importante per il legislatore dell’aiutare coloro la cui vita è stata rovinata dalla tecnologia», scriveva John Stuart Mill intorno al 1840. «Era vero nell’era del motore a vapore, lo è in quella dell’IA».

 

 

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