COME VIVERE, E MALE, SENZA FEDERICO ZERI - CI DICE ANCORA CHE LA STORIA DELL'ARTE È STORIA E BASTA: CHE L'OCCIDENTE E L'ORIENTE SI INCROCIANO DI CONTINUO. AVVERTE CHE SOLO SVILUPPANDO IL NOSTRO OCCHIO RIUSCIREMO A CAPIRE CHI SIAMO - ANNA OTTANI CAVINA: ‘’VISITING PROFESSOR A HARVARD E ALLA COLUMBIA, NON È MAI STATO CHIAMATO DA UNA UNIVERSITÀ ITALIANA. DA FREELANCE AVEVA UN'AUTOREVOLEZZA CHE SI ERA COSTRUITO DA SOLO. ERA UNA FIGURA LIBERA, CONTROCORRENTE. AVEVA UN DISTACCO ARISTOCRATICO DA OGNI SISTEMA, NON ANDAVA A BUSSARE ALLE PORTE’’
Dario Pappalardo per "Robinson - la Repubblica"
Nei video su YouTube, Federico Zeri continua a tenere la sua lezione. Non dalla cattedra che non ha mai avuto, ma dalla scrivania della sua Villa di Mentana, tra i marmi e le cartelline di fotografie. Continua a googlare nella sua testa - lo fa da quando il termine ancora non esisteva - a trovare connessioni tra le immagini, tra maestri del colore riconosciuti o pittori anonimi, dimenticati dai documenti.
Ci dice ancora che la storia dell'arte è storia e basta: che l'occidente e l'oriente si incrociano di continuo sulle tavole delle icone, tra i polittici dipinti e le sculture degli imperatori. Avverte che solo sviluppando il nostro occhio riusciremo a capire chi siamo.
Zeri avrebbe compiuto 100 anni il 12 agosto. Di lui resta un archivio strepitoso - Internet ante litteram - che era già nella sua mente e che oggi è oggetto delle ricerche di studiosi e appassionati nel mondo. Quel patrimonio culturale è stato custodito dalla storica dell'arte Anna Ottani Cavina, che per 14 anni ha diretto la Fondazione Zeri, di cui ora è presidente onoraria, all'università di Bologna.
Con il critico e una ristretta cerchia di amici ha condiviso i viaggi e un'amicizia costante, fatta di discrezione: «Ci davamo del lei», dice. Chi era Federico Zeri? «La storia di Federico Zeri è quella di un irregolare di genio. Molti l'hanno conosciuto in tv, ma lui ha vissuto decenni di studio alfieriano fra biblioteche e musei con una sete ossessiva di conoscenza.
Si laurea a Roma nel 1945 con Pietro Toesca, guida i soldati americani alla scoperta della capitale, conosce le lingue, la botanica, la chimica ed entra in dialogo con i poli antagonisti della storia dell'arte: Roberto Longhi e Bernard Berenson, che raggiunge a I Tatti, la villa di Fiesole, pedalando sulla bici di Anna Banti».
Il più citato nella storia dell'arte italiana del Novecento rimane però Roberto Longhi. «Ma Federico Zeri ha sùbito una dimensione internazionale. Conosce il mondo anglosassone come nessuno in quegli anni: 18 traversate alla volta degli Stati Uniti. Parla e scrive un inglese perfetto. A 36 anni è chiamato dal Metropolitan Museum di New York per costruire il catalogo dei dipinti italiani, quattro volumi.
Poi il catalogo della Walters Art Gallery di Baltimora e il Census of Italian Paintings nelle collezioni pubbliche americane. Incrocia elementi di diversa natura - storia, filologia, iconografia - per restituire identità ai dipinti. È il consulente di grandi collezionisti, da Vittorio Cini ad Alessandro Contini Bonacossi, da Luigi Magnani a Gianni Agnelli a Paul J. Paul Getty: la sua connoisseurship diventa strumento di conoscenza storica».
Non lavorava per il mercato? «Non aveva piedistalli accademici, era un libero studioso. È stato l'advisor del grande antiquario Daniel Wildenstein. In mezzo alle fotografie di Zeri abbiamo recuperato 323 perizie, battute a macchina su carta termofax, molto lontane da quelle paginette oracolari, ontologiche, cui ci ha abituato il mercato. Ogni perizia, di tre/quattro pagine, ha la densità di un saggio.
FEDERICO ZERI CON ANNA OTTANI CAVINA
Zeri sposta l'attribuzione e la data, decifra la scritta, individua l'emblema araldico, coglie gli indizi più labili e nascosti. Uno scavo molto serio per dare nome a un dipinto e ricostruire il tessuto storico. Senza potersi avvalere di Internet, aveva una capacità di connessione straordinaria. Scansionate nel cervello, tutte quelle immagini gli permettevano collegamenti che noi oggi facciamo con il computer».
Riguardando i suoi interventi in video appare sicuro nello smascherare i falsi con esiti clamorosi. «Usava parole di spietata precisione, definitive. Nel 1983 sul kouros del Getty, la statua greca ritrovata in sette pezzi che quadravano a perfezione, afferma a gran voce che è un falso. Cacciato dai trustees del museo, otterrà finalmente ragione nel 1990, alla comparsa sul mercato di un secondo kouros gemello. A favore delle telecamere del tg, nel 1984 afferma senza esitazione che le "teste di Modigliani": "So' du' paracarri".
La sua capacità di definizione proviene da un lungo processo investigativo e da una conoscenza delle forme e della loro evoluzione in un arco temporale vastissimo. Ma anche da studi incrociati. Persino dalla botanica».
La botanica? «Smaschera la cosiddetta Madonna di capitan Cook attribuita a Raffaello, riconoscendo nel dipinto una Cycas revoluta, una palma originaria delle terre oceaniche esplorate da Cook 250 anni dopo la morte di Raffaello. In questo campo la sua conoscenza capillare si saldava a un amore sconfinato per la natura che aveva motivazioni nel mondo antico e pagano, prima che la sacralità del regno vegetale fosse scalzata dall'avanzare del cristianesimo».
Era diventato una maschera televisiva, un influencer ante litteram. «I suoi affondi sono impudenti, a volte pittoreschi fra palandrane e jellabah, ma nel segno della denuncia. Conosce le potenzialità del mezzo: "Rispondendo alle buffonate con le buffonate, non ho esitato a travestirmi, ad apparire in scenari assurdi, a costruirmi una personalità che Salvador Dalí, che ho conosciuto di persona, non avrebbe sconfessato"».
Non ha scritto molti libri. «"Rimpiango tutti i libri che non ho scritto", diceva. Il suo Pittura e Controriforma è ancora un libro esplosivo, prima risposta italiana agli studi marxisti di Frederick Antal. Ma Zeri è una stella di prima grandezza, al di là dei suoi scritti, dove ha forgiato una lingua scabra e laconica, estranea alla cerchia longhiana: "una lingua elegante, costruita a colpi di rinunce, dove il poco tiene il posto del molto e lo riassume", come gli riconosceva Giovanni Testori».
Che ricordi ha dei viaggi con lui? «Viaggiava in luoghi remoti, allora poco accessibili, su autobus di linea. Si muoveva fra le rovine della città carovaniera di Palmyra - dove arrivammo nel 1988 con i cammelli - come se davvero quelle rovine lui le avesse abitate, quando ancora non c'era il deserto. "Non ci sono più le gazzelle!". Queste parole di Zeri non le dimentico. Aveva negli occhi la Palmyra del III secolo: leoni e gazzelle cacciati dall'imperatore Aureliano nei territori della regina Zenobia, come li aveva descritti Ammiano Marcellino».
Si lanciava in territori estremi per l'epoca. «Amava i crocevia delle culture, le civiltà alla periferia dell'Impero. Non era ancora caduto il muro di Berlino e si andò a Tallinn, in Estonia, alla ricerca di un retablo di Michael Sitow, poi a Mistra, fra le rovine medievali dei Paleologi, in Siria e in Turchia, dove si è recato più volte, mentre colleghi illustri non avevano mai visto Costantinopoli. A differenza di Roberto Longhi, che in Giotto riconosceva l'origine della nostra cultura visiva, Zeri individuava le nostre radici nell'Oriente e nella contaminazione dei due mondi».
Non ha mai avuto una cattedra in Italia. «Visiting professor a Harvard e alla Columbia University, non è mai stato chiamato da una università italiana. Da freelance aveva un'autorevolezza che si era costruito da solo. Era una figura libera, controcorrente. Aveva un distacco aristocratico da ogni sistema, non andava a bussare alle porte.
Si rifugiò lontano dalla città: a Mentana, fuori Roma, nella villa dove aveva montato la sua collezione di reperti in una passeggiata socratica di incontro con le ombre del passato. La lettura più penetrante è dell'archeologo Antonio Giuliano: Zeri veniva a noi da un mondo antico, cui sentiva di appartenere; da qui la sua solitudine intellettuale e il suo rapporto lacerante con il presente».