“FACEVO L'ECONOMISTA E PAPÀ NON MI VOLEVA SU UN SET” - CRISTINA COMENCINI: “SONO DONNA, "FIGLIA DI" E ANCHE MOGLIE DI UN PRODUTTORE. DAVVERO TROPPO PER FARE LA REGISTA IN ITALIA” - E SUL FIGLIO MINISTRO, CARLO CALENDA: “FA IL SUO LAVORO CON UNA PASSIONE CHE GLI INVIDIO…”
Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera”
La casa romana di Cristina Comencini è un teatro di cose che si raccontano senza voce: la potenza irredenta di Filippo De Pisis in uno studio virato al rosa, la solidità intergenerazionale di un sintetizzatore, il candore fresco dei copridivani - provvidenziali in un afoso pomeriggio estivo. E poi i piedi nudi di questa affascinante sessantenne bionda, asciutta, leggermente roca. «Un po' d' acqua e limone?», certo, un classico della Roma che boccheggia. Bella casa. Sembra una di quelle dimore che fanno da sfondo ai suoi film sulle famiglie. «Forse perché ne ho fatti troppi di film così. E chissà, magari è ora di cambiare registro».
Come ricorda la sua prima vita, quella in cui faceva l' economista? In bianco e nero?
«Era molto interessante. Ho studiato economia e matematica sin dalle superiori, perché ho fatto la scuola italo-francese. Poi la Sapienza, dove seguivo i corsi di Federico Caffé. Un mistico dell' insegnamento, in seguito diventato famoso per la sua scomparsa misteriosa».
E oggi lei ha un ministro dello Sviluppo Economico in famiglia: suo figlio Carlo Calenda.
«Curioso perché mentre studiavo all' università io ebbi entrambi i miei primi due figli, Carlo, appunto, e Giulia, che oggi fa la sceneggiatrice. Quando venivano in casa i miei amici a studiare economia, Carlo era nel box. Insomma, ha respirato numeri sin da piccolo!».
Il cinema arriverà molto dopo.
«Sì, perché dopo la laurea mi misi a lavorare in un istituto di ricerca. Studiavo l' economia del Molise, pensi un po'. Scoprii addirittura una ripresa economica molisana (ride, ndr ). Certo, cercavo di stare lontana dal cinema anche per non subire la potenza della figura paterna».
Suo padre Luigi, architetto per formazione, ha firmato film importanti. Lui la incoraggiava a seguire la sua stessa strada?
«Per nulla, anzi, ci raccomandava di stare lontane dai set e dalla macchina da presa. Siamo quattro figlie femmine (oltre a Cristina, ci sono Paola, Francesca e Eleonora, ndr ) e lui era convinto che le donne, proprio per potersi garantire un' indipendenza economica, dovessero avere una professione più solida. Senza contare che c' era un altro pensiero, meno esplicito».
Quale?
«Temeva che un cognome così ingombrante ci avrebbe condizionato. Risultato: tutte e quattro le figlie oggi in qualche modo sono legate al cinema. E io poi ho azzardato più delle mie sorelle. Sono donna, sono "figlia di" e sono anche moglie di un produttore, Riccardo Tozzi. Davvero troppo per fare la regista in Italia ( ride )».
Complicato?
«Molto. Basti pensare che ad ogni film, libro o spettacolo teatrale che faccio, metto in conto che qualcuno dica: eh grazie, con quelle conoscenze. Però questo mi ha insegnato a vedere meglio le mie reali possibilità. Per dire, quando feci La fine è nota , nel 1992, ero convinta di aver girato un capolavoro, ma poi fu un insuccesso clamoroso. Eppure resto convinta che quello sia stato un buon film. Ho imparato a distinguere gli insuccessi dalle cose poco riuscite».
Anche l' esordio letterario fu una delusione?
«Sì. Mandai a Natalia Ginzburg un lungo racconto: lei lo rifiutò dicendo che non era maturo. Mi dedicai allora alla sceneggiatura e conobbi Suso Cecchi d' Amico, per me una persona fondamentale. Poi riprovai: mandai a Ginzburg il romanzo Le pagine strappate , ma stavolta firmandolo con il cognome da sposata, Tozzi. Lei mi richiamò dopo 48 ore. Voleva incontrarmi».
Fu utile togliere il cognome ingombrante?
«No, semplicemente credo che quello fosse un libro più maturo. Sentii che qualcosa si stava muovendo, presi coraggio. Anche per andare dietro alla macchina da presa. Io non ho fatto studi di regia, ma ho studiato fotografia e, soprattutto, sono sempre stata una grande lettrice di romanzi. Avere il senso del racconto è fondamentale, perché la cosa più importante è che i personaggi seguano un filo logico e psicologico. Così decisi di fare un film, approfittando di un fondo dell' Istituto Luce per pellicole destinate ai ragazzi. Si intitolava Zoo ed era girato nello zoo di Roma, con protagonista Asia Argento, che nel 1988 aveva tredici anni».
Suo padre le diede consigli?
«La sera prima dell' inizio delle riprese andai a trovarlo e gli chiesi: "Papà ma come faccio a capire quando è ora di cambiare inquadratura?". Lui non si scompose: "Vai tranquilla, tutto verrà da sé". Poi andai da mia sorella Paola, scenografa, facendole la stessa domanda ma lei mi scansò dicendo: "Vai a girare che non ho tempo da perdere". Non avevo scelta: girai e basta».
Un coraggio visionario. Ma forse tutta la sua generazione, quella dei nati nel 1956, è permeata da questa «potenza immaginifica».
«Sì, penso che siamo stati dei privilegiati. Perché, da ventenni, abbiamo vissuto l'invenzione del concetto di gioventù in Italia. Solo in quanto giovani ci sentivamo valorizzati, ammirati, si riponevano delle aspettative in noi. Cosa che purtroppo oggi non avviene con i ragazzi, che si sentono senza futuro. Non vengono educati ad avere coraggio, bensì ad avere paura».
Dopo l' esordio di «Zoo», lei firmò un film in costume molto ambizioso, «I divertimenti della vita privata». Era il 1992.
«Una commedia ambientata durante la Rivoluzione francese. Sul set, Vittorio Gassman e Giancarlo Giannini. Io ero intimidita da questi giganti e a un certo punto lo stesso Gassman tagliò corto: "Su Cristì, giriamo 'sto film sennò qua famo notte". Risi, sospirai e cominciai».
Lei, da ragazza, trascorreva le vacanze con la famiglia di Erri De Luca, per fare un esempio. Amicizie di alto profilo intellettuale. Quanto hanno contato nella sua crescita?
«Preciso che, sebbene siamo ancora amici, con Erri non ci vediamo da un po' ( ride ). Ma guardi, forse ha contato di più un certo tipo di cosmopolitismo culturale. La famiglia di mia madre, discendente dei Grifeo di Partanna, ha radici napoletane, colte, allegre. Papà era un lombardo di educazione valdese, che si innamorò di mamma perché era una donna che sapeva ridere, il suo opposto. Sin da piccole abbiamo letto i grandi romanzi russi e quelli francesi, siamo cresciute con il Pinocchio televisivo, per capirci. Seguivamo Luigi nelle città dove andava a girare. E poi, davanti agli occhi, abbiamo visto scorrere i fotogrammi di una grande storia d' amore: quella tra mamma e papà».
Dopo la delusione di «La fine è nota» venne la riscossa con «Va' dove ti porta il cuore».
LA BESTIA NEL CUORE DI CRISTINA COMENCINI
«Otto anni dopo, però. Fu la stessa Susanna Tamaro a chiedermi di firmare la regia della pellicola tratta dal suo romanzo. Ci conoscemmo al Premio letterario Calvino. Il giorno dell' uscita del film mi prese un colpo, perché nei cinema non c' era. Panico. Poi al telefono Aurelio de Laurentiis mi disse: "Stai tranquilla, si sta muovendo in provincia". E infatti ebbe un grande successo proprio per questa diffusione territoriale, capillare. Aurelio è un maestro».
Un' onda lunga di successi che ha sfiorato l' Oscar con «La bestia nel cuore». E oggi? Che cinema vuole fare?
«Oggi il momento è bellissimo e terribile al tempo stesso. Le grandi serie televisive, quelle fatte bene, ci hanno dato un gran cazzotto ma ci costringono a ripensarci. Per dire, c' è stato un periodo in cui andavano benissimo i film tratti dai libri. Oggi non è più così. Ma è il destino del cinema: reinventarsi sempre. Io non so ancora come venirne fuori, ma da un po' di tempo penso che una delle strade possibili sia riprendere in mano il genere e rinnovarlo. Io abbandonai il genere dopo l' insuccesso de La fine è nota (un giallo, ndr ) e penso che, dopo decine di commedie e di storie di famiglie, forse sia arrivato il momento di cambiare radicalmente».
latin lover di cristina comencini
Lei sabato 16 sarà a Fuoricinema, la rassegna milanese. Parlerà, tra l' altro, delle «sue donne» sul set. Attrici ma anche amiche.
«Da Lisi a Buy, da Cortellesi a Angiolini, Finocchiaro, Rocca, Paredes a tutte le altre. Da tutte ho imparato qualcosa, tutte mi hanno dato tanto. E su Fuoricinema, penso che queste iniziative siano fondamentali: oggi che andare al cinema viene visto come qualcosa "da vecchi" il fatto di organizzare una rassegna aperta a tutti e legata alla rivitalizzazione di uno spazio, in questo caso addirittura alla fondazione di un vero e proprio Polo, a Milano, credo che spalanchi una finestra e faccia entrare aria buona».
latin lover di cristina comencini
Il suo ultimo romanzo, «Essere vivi», segna il passaggio a Einaudi. Un cerchio che si chiude, se pensiamo agli esordi con Ginzburg.
«Sì, iniziai con Natalia ma poi pubblicai con Feltrinelli, gruppo al quale devo moltissimo. È una storia di bambini e di genitori adottivi. Io cerco sempre di partire dalle singole vite per arrivare a raccontare la Storia con la maiuscola».
Contenta delle scelte politiche di Carlo Calenda?
«Molto. Poi lui fa il suo lavoro con una passione che gli invidio. Io non faccio politica attiva ma da sempre sono impegnata nella difesa dei diritti civili».
Anche delle donne. Lei è stata tra le anime di «Se non ora quando», manifestazione nata nel 2011 sull' onda delle vicende di Berlusconi.
«Da ragazza per me l' aver militato nel movimento femminista è stato molto importante.
Ma oggi noi abbiamo dato. Ora tocca alle più giovani. Che hanno un grande nodo da sciogliere: reinventare la differenza tra uomini e donne. L' uguaglianza deve tener conto di una differenza se si vuole continuare ad amare. E oggi questo si può fare solo se uomini e donne camminano insieme, fianco a fianco». Auguri.