“LA BOHÈME” CHE ASPETTAVAMO DA ANNI - AL COMUNALI BOLOGNA VA IN SCENA LA DURISSIMA, INDIMENTICABILE OPERA DI PUCCINI DIRETTA DA MICHELE MARIOTTI E GRAHAM VICK - MATTIOLI: “È LA SCOMMESSA VINTA SU UN FATTO CHE UN TITOLO COSÌ VISTO E RIVISTO, COSÌ ABUSATO E TRAVISATO, POSSA TORNARE GIOVANE COME I SUOI PERSONAGGI…”
Alberto Mattioli per www.lastampa.it
Francesco Demuro e Mariangela Sicilia nel finale della Boheme al Comunale di Bologna
Per raccontare com’è «La Bohème» diretta da Michele Mariotti e messa in scena da Graham Vick (al Comunale di Bologna, oggi e domani le ultime recite) è meglio incominciare dalla fine. Mimì è spirata senza nemmeno un sospiro, appoggiando la testa sulla spalla di Rodolfo, per terra in una soffitta-squatter contemporanea e miserabile dove non c’è nemmeno il letto.
A differenza degli amici, lui non se n’è ancora accorto. Qui di solito tutti i Rodolfi sbraitano la loro frase parlata: «Che vuol dire / quell’andare e venire, / quel guardarmi così». Mariotti invece chiede e ottiene dal suo, Francesco Demuro, che la dica sottovoce, come per non svegliare Mimì.
Poi la rivelazione, mentre l’orchestra, sotto, prende il colore della morte (scusatemi, non si può descrivere, bisogna ascoltarlo, però fidatevi: è così). Rodolfo capisce che ha su di sé un cadavere, si ritrae inorridito, scappa fuori. Gli altri lo seguono, dopo che Schaunard, il più buono, o forse semplicemente il più giovane, ha coperto la ragazza con il suo stesso lenzuolo.
L’ultima immagine è questa: lei morta sotto quella sindone bianca, le sue scarpe rosse con il tacco accanto, in una stanza squallida e vuota, sotto una luce cruda. E’ un pugno nello stomaco, è Puccini, è «La Bohème», è il teatro, è la verità. Anzi, è il teatro perché è la verità, e viceversa: ma così spietata, non si era vista mai.
E allora, quando le infinite «Bohème» viste nella vita diventano di colpo remote, forse sbagliate, di certo indifferenti, ci si chiede perché Puccini e quest’opera debbano essere considerati poetici o sentimentali o sognanti, insomma consolatori. Quest’opera dove il vero soggetto è la più dolorosa delle età, la giovinezza, dove si parla di gente che muore di fame e di freddo, dove il consapevole cinismo lucidissimo e geniale di Puccini ci intrappola in un ricatto sentimentale molto più feroce di quanto avessimo mai sospettato, perché dev’essere consolatoria?
No, «La Bohème» è un’opera crudele come poche. E infatti Vick non concede ai suoi ragazzi, dunque nemmeno a noi, l’alibi del rito di passaggio, del Bildungsroman dove la morte di Mimì significa la scoperta della vita «vera» per tutti gli altri. Di fronte alla morte, Rodolfo e gli altri scappano (Musetta, più cinica o solo più sveglia, ricordandosi anche di intascare i soldi della vecchia zimarra di Colline finita al Monte di Pietà e lasciati lì, su una delle rare suppellettili). Come dire: il dolore non aiuta più nemmeno a crescere.
Questa «Bohème» è fresca e terribile. Finalmente, aggiungerei. È «la Bohème» che aspettavamo da anni, è una pagina che si volta, è la scommessa vinta su un fatto che un titolo così visto e rivisto, così abusato e travisato, possa tornare giovane come i suoi personaggi, nuovo, croccante, come se fosse stato appena composto, e proprio per noi.
Quei due, intendo Mariotti e Vick, hanno chiaramente lavorato d’amore e d’accordo. Ambientazione contemporanea, ovvio, che non è «tradire Puccini» come credono i coeurs simples (spesso in malafede, però), visto che qui Puccini c’è tutto fin nei dettagli più nascosti, ma che permette una recitazione di una fluidità vista raramente su un palcoscenico d’opera. Certo, aiuta che tutti i cantanti abbiano l’età dei loro personaggi e nessuno i tic di chi li ha interpretati troppe volte. Ma si sa che nulla è più difficile della semplicità.
C’è un lavoro matto e disperatissimo dietro questa naturalezza, dove per ogni nota c’è un gesto, uno sguardo, un movimento, tutti infallibilmente veri e giusti. Si ride, perfino, perché «La Bohème» è (anche) una commedia: ed è l’unica volta che le scempiaggini dei quattro bohèmien in fase di adolescenza prolungata appaiano spontanee, fresche, perfino divertenti.
Si diceva dell’ambientazione. Allora, una mansarda modello appartamento Erasmus arredato da padrone avido mettendo insieme quel che c’era fra cantina e solaio per il primo atto; caffé contemporaneo con sfilata finale di banda di Babbi Natale (già fatta da Michieletto a Salisburgo, però) per il secondo; di nuovo mansarda ma ancora più squallida per il quarto.
Il terzo quadro convince meno. Sì, la barriera d’Enfer era forse anche nell’Ottocento un luogo abbastanza inquietante (oggi una piacevole piazza del quattordicesimo arrondissement, anche piuttosto elegante) ma forse Vick ci dà un po’ troppo dentro con l’umanità degradata di tossici, marchettari e sbirri corrotti. Mi sembra che la musica di Puccini suggerisca piuttosto un freddo vuoto, più ghiacciato che agghiacciante.
In ogni caso, regia di un virtuosismo tecnico e di una ricchezza di idee non solo sbalorditivi, ma inscindibili. Per una volta, Rodolfo & Mimì non sono il tenore Pinco e il soprano Pallina impegnati a ripetere goffamente vecchie gag, ma diventano proprio loro, anzi noi, esattamente come siamo o come siamo stati.
Si capisce già tutto dall’incontro fra lui e lei nel primo atto. C’è tutto un mondo, un modo di muoversi, una tenerezza impacciata e antiretorica («Che gelida manina» detto appoggiandoci sopra la guancia), tipici tic giovanili con le scarpe tolte e messe, l’abitudine di raggomitolarsi sul divano: questa non è più interpretazione, ma incarnazione.
Quanto a Mariotti e alla sua orchestra in stato di grazia, sono contento che qualcuno di più esperto e autorevole di me abbia scritto quel che io avevo pensato e detto in teatro: è forse la più bella «Bohème» dai tempi di Kleiber. Di certo, la più nuova. Il trucco è molto semplice: partire da Puccini.
Mettersi di fronte alla partitura celeberrima non solo come non la si fosse mai diretta (appunto: per Mariotti non era solo la prima «Bohème», era anche il primo Puccini, a parte uno «Schicchi» giovanile ormai rimosso), ma anche come se non la si fosse mai sentita. Ed è esattamente l’effetto che fa all’ascoltatore.
Stasera si fa Puccini, non il puccinismo. Addio ai mille cari effetti di tradizione. Emergono dettagli dimenticati o mai sentiti, i rubati ci sono ma non dove te li aspetti, dove è giusto e logico che siano, mentre i colori di un’orchestra camaleontica sembrano non finire mai, la flessibilità ritmica è favolosa, il canto di conversazione ha la fluidità della prosa e certe pause si caricano di una tragicità perfino fisicamente dolorosa. Stupendo.
La compagnia, giovane, affiatata, concentrata, è convinta dunque convincente. Mariangela Sicilia non ha una voce privilegiata, ma sa cantare e anche molto bene: è una Mimì magnifica, che si concede perfino il lusso di dare un rilievo insolito, e d’ora in avanti indimenticabile, a certe frasi trascurate. Una per tutte: «Vorrei che eterno / durasse il verno!». Demuro ha un bel timbro che si stringe un po’ sugli acuti (ma la romanza è in tono, e il do sicuro), però dove risulta perfetto è nel fare un Rodolfo infantile, entusiasta e magari un po’ tontolone.
Nicola Alaimo è il Marcello più autentico e simpatico in cui io mi sia imbattuto nelle mie troppe «Bohème»: «simpatico», attenzione, per la grazia guascona con la quale muove il suo corpaccione fra le grisettes, ma anche per come, etimologicamente, «soffre insieme» agli altri. Bravissimo Andrea Vincenzo Bonsignore, uno Schaunard d’insolito rilievo, solido il Colline di Evgeny Stavinsky, bella e brava la Musetta molto sexy e nel finale per nulla Maddalena pentitente di Hasmik Torosyan, sobrio e per una volta non macchiettistico il Benoît di Bruno Lazzaretti.
Finiti i cari vecchi puccinismi d’antan, le leziosaggini, i «sono così carini» (no, non sono carini: stanno soffrendo come bestie), le tenerezze prêt-à-porter prima di andare a cena. D’ora in avanti «La Bohème» sarà questa, gaia e terribile, indifesa come la giovinezza e crudele come la vita. Alla fine si piange, certo. E, come insegnava Gianandrea Gavazzeni, non per commozione estetica, ma proprio perché Mimì muore. O, forse, si piange soprattutto per noi stessi.
PS: lo spettacolo, spiace dirlo, va visto in teatro. Rai5 l’ha trasmesso, e grazie per questo. Però la qualità audio era indegna e la regia televisiva imbarazzante.