CRITICI VIL RAZZA DANNATA? - STA PER USCIRE NELLE SALE "QUANDO LA NOTTE" DI CRISTINA COMENCINI, AFFOGATO A VENEZIA DAI FISCHI E SI RISVEGLIANO I MAL DI PANCIA NEI CONFRONTI DELLA CINE-CRITICA - MA È A TUTTI EVIDENTE CHE LE RECENSIONI CONTANO POCO O NIENTE, SOLO IN CASI ECCEZIONALI FAVORISCONO LA FORTUNA COMMERCIALE DI UN FILM (VEDI: “L’ULTIMO TERRESTRE” DI GIPI, “TERRAFERMA” DI CRIALESE, “IL VILLAGGIO DI CARTONE” DI OLMI) - EPPURE TUTTI VOGLIONO SCRIVERE DI CINEMA, PERFINO I BANCHIERI COME BAZOLI…

Michele Anselmi per "il Riformista"

Critici vil razza dannata? Paolo Sorrentino, ospite di Lilli Gruber su La7, ironizza sui recensori pigri e prevedibili che non gli hanno fornito alcun motivo di riflessione su "This Must Be the Place", film per lui quasi perfetto. Lo scrittore Beppe Sebaste, sul "Venerdì", sfidando la legge aurea del chi se frega, tuona: «Ho visto "Terraferma" di Crialese e l'ho trovato bellissimo. Ho visto "Carnage" di Polanski e sono stato deluso. Questa critica si rivolge però alla critica cinematografica, a volte pretestuosa e spocchiosa, che proietta sui film i propri vizi di superficialità e schematismo».

Il produttore Gianluca Arcopinto allestisce una dolente filippica di 7.000 battute sul "Fatto Quotidiano" per attaccare Alberto Crespi dell'"Unità", «simpatico interista» nonché «uno dei critici che stimo di più», perché avrebbe stroncato "Cavalli", da Arcopinto realizzato tra mille difficoltà, senza averlo visto, per di più bollandolo come «indegno di partecipare a un festival». Naturalmente le prove di cotanto misfatto non vengono esibite.

Periodicamente si risvegliano i mal di pancia nei confronti della cine-critica, intesa come categoria compatta ed esecrabile, mentre invece i critici compongono solo un minuscolo esercito di scribi scompagnati e spesso rivali. Il sottoscritto, per dire, non è neppure iscritto al sindacato. Nella mia attività giornalistica attorno al cinema ho sicuramente sbagliato giudizi e provocato qualche sofferenza, talvolta cercando di rimediare dopo una seconda visione.

Ma è a tutti evidente che le recensioni contano poco o niente, sono opinioni personali, solo in casi eccezionali favoriscono la fortuna commerciale di un film. «Piazze piene, urne vuote» si diceva in politica. Vale anche per il cinema: «Pagine piene, sale vuote». Per dire tre casi italiani recenti: "L'ultimo terrestre" di Gipi, "Terraferma" di Crialese, soprattutto "Il villaggio di cartone" di Olmi. Eppure tutti vogliono scrivere di cinema in prima pagina, perfino i banchieri come Bazoli.

Poco più di un mese fa Pierluigi Battista, sul "Corriere della Sera", premettendo di non aver visto il film al Lido, se la prese con «la Casta dei critici» (?) per alcuni sghignazzi piovuti su "Quando la notte" di Cristina Comencini. Ne nacque un vivace scambio di idee col critico del giornale, Paolo Mereghetti, associato a un branco selvaggio che sarebbe composto di «urlatori, fischiatori, coristi di curva muniti di burocratica autorizzazione, paladini di ogni boiata pazzesca, predestinati intoccabili, addetti alla distribuzione di passaporti culturali, sacerdoti della reputazione elargita nel nome di non si sa che».

Al festival di Cannes certi film francesi sono accolti anche peggio, ma nessuno lì parla di complotti e imboscate. La verità? I fischi alla proiezioni per la stampa vanno presi per quelli che sono: sfoghi cinefili, spesso umorali e maleducati, non trappole mediatiche orchestrate da misteriosi gruppi organizzati (il produttore Riccardo Tozzi tirò in ballo addirittura i saggi di Goebbels e Lenin sulla psicologia di massa).

Magari, sottratto alle convulsioni festivaliere, "Quando la notte" troverà un suo pubblico, specie femminile, arrivando venerdì nei cinema normali targato Raicinema. Non che sia proprio una riuscita. Specie nella seconda parte, dove i silenzi meditabondi lasciano spazio a frammenti di dialogo non sempre calibrati e situazioni un po' sfuggite di mano. La storia, ricorderete, è quasi un corpo a corpo tra Marina e Manfred, ovvero Claudia Pandolfi e Filippo Timi.

Lei arriva a Macugnaga, pendici del Monte Rosa, insieme al figlioletto Marco di due anni, affetto da problemi respiratori. Vacanza terapeutica, con marito lontano. Ma anche triste, solitaria, angosciata. Il piccolo piange per ore, ogni notte. La donna è esasperata. Al piano di sotto, nella casa presa in affitto, abita una guida alpina, uomo chiuso e sprezzante, con un conto aperto nei confronti della moglie, che gli ha sottratto i due amatissimi figli.

«Marco un giorno sarà un uomo, deve conoscere le donne, sapersi difendere» ammonisce il montanaro. Non si fida di Marina, teme addirittura che la donna, in un raptus di rabbia, abbia tentato di uccidere il pargolo, sbattendolo per terra. Com'è andata davvero, lo sapremo verso la fine. E intanto tra i due, anime scorticate che si attraggono e respingono allo stesso tempo, nasce uno strano legame destinato a non essere vissuto, consumato. Anni dopo, nell'inverno imbiancato, Martina torna in quei luoghi per rivedere Manfred. E stavolta sarà diverso: non solo per via del sesso.

Confermo quanto scritto da Venezia. Lo stile del film, che si vorrebbe stringato e nervoso, quasi da horror psicologico, si sfilaccia strada facendo su quei sentieri di montagna. La natura è potente, sovrasta le voci e ossigena i polmoni. Però intrappola anche i personaggi in una sorta di mélo subalpino, tra musiche invadenti, sottolineature eccessive, battute involontariamente risibili. Sarò uno della Casta?

 

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