PEGGIO DI DAGOSPIA, SOLO I FRATELLI GONCOURT – PER LORO “LA MALDICENZA RESTAVA IL PIÙ GRANDE LEGAME SOCIALE” E DEI SALOTTI PARIGINI ANNOTAVANO TUTTO: LA BRUTALITÀ DI MAUPASSANT CHE, DOPO ESSERSI LAMENTATO CON L’AMANTE DEI TORMENTI DELLA SIFILIDE, L’AVEVA STUPRATA. LA TEORIA DI BALZAC, SECONDO IL QUALE I RAPPORTI SESSUALI DOVEVANO LIMITARSI AI PRELIMINARI, CONVINTO CHE OGNI EIACULAZIONE FOSSE “UN’EMISSIONE DI PURA SOSTANZA CEREBRALE”. PER QUESTO, DOPO UN AMPLESSO, AVEVA GRIDATO: “STAMATTINA HO BUTTATO VIA UN LIBRO!”
“La civile indiscrezione” goncourt
Giuseppe Scaraffia per Tuttolibri-La Stampa
Chi vedeva ogni mattina i due fratelli passeggiare in cilindro nel Bois de Boulogne non poteva sapere che quei silenziosi flâneur stavano scrivendo la storia segreta della loro epoca. Malgrado otto anni separassero Edmond da Jules, avevano diviso ogni momento della loro vita e talora anche le amanti, ma soprattutto l’umiliazione di non essere considerati.
La loro ferita, la loro sensazione di essere stati sottovalutati dopo avere inaugurato nei loro romanzi il realismo e nei loro saggi storici la petite histoire divenne un’acuminata lente d’ingrandimento. Storici della quotidianità, nel loro immane diario si alimentavano dell’orgoglio malinconico di sapersi inattuali, inguaribilmente distanti dalla società che frequentavano, malgrado non li capisse.
Aragno, che ha meritoriamente pubblicato i 7 volumi dello straordinario “Journal” dei Goncourt, oggi ne propone un florilegio piccante, “La civile indiscrezione”. Eccentricità, vizi e manie ricostruiscono la trama nascosta della vita letteraria nel XIX secolo. Certo i due fratelli avevano viaggiato in Italia gustandone le bellezze, come spiega invece Carlo Alberto Petruzzi, curatore del pittoresco “Venezia di notte”, Damocle editore.
Ma il loro terreno di caccia preferito era Parigi. Anche se le verità nascoste venivano catalogate come malignità, per loro “la maldicenza restava il più grande legame sociale”. Con un’intuizione straordinaria in quel secolo devoto all’ipocrisia, Edmond sapeva che “l’indiscrezione può solo ingrandire la memoria” di un autore altrimenti destinato all’oblio.
Quando Jules, il più giovane, era morto precocemente di sifilide, Edmond aveva proseguito da solo il loro diario. Una sera in un salotto il giovane Proust aveva notato con dispiacere “i maneggi” delle dame per non fargli sapere quando ricevevano: “Ascolta, riferisce, scrive delle memorie su di noi”.
Non era facile essere lo specchio segreto dell’epoca. “Ah, la verità! Che dico la verità? No, ma soltanto una milionesima parte di questa verità, com’è difficile dirla e come ve la fanno pagare!”.
Nessuna particolarità sfuggiva ai diaristi. Al ristorante con Flaubert bisognava cenare in una saletta privata perché lui, per godersi la cena, doveva togliersi giacca e stivali.
Registravano compiaciuti la teoria di Balzac, secondo il quale i rapporti sessuali dovevano limitarsi ai preliminari. Infatti era fermamente convinto che ogni eiaculazione fosse “un’emissione di pura sostanza cerebrale”. Per questo, dopo un incontro d’amore, aveva gridato: “Stamattina ho buttato via un libro!”.
Ascoltavano imperturbabili il timido Zola dilungarsi su temi erotici: in gioventù, raccontava, gli capitava di passare più giorni senza alzarsi dal letto con una donna. Dopo, insisteva, era talmente esausto che doveva aggrapparsi ai muri per non cadere. Ma i Goncourt sapevano che, quando era andato a trovare una celebre cortigiana, alla ricerca di documentazione per “Nanà”, era fuggito temendo di esserne insidiato.
Riportavano compiaciuti gli aneddoti sulla brutalità di un autore di successo come Maupassant che, dopo essersi lamentato con l’amante dei tormenti della sifilide, l’aveva stuprata lasciandola terrorizzata all’idea del contagio.
E che dire di Turgenev, “il dolce gigante”, che assicurava di avere provato il più grande piacere della sua vita possedendo una sconosciuta sulla tomba di un cimitero? O di Daudet che, divorato dalla sifilide, spiegava: “Per godere mi occorre, stretta alla mia carne, la carne di due donne” e una pioggia di parolacce volgari?.
“In fondo, concludeva Zola, le mogli sono prive di buon senso… se sua moglie gli consentisse quello che gli accordano le cameriere delle brasserie, la sua sarebbe la casa più felice della terra… e il donnaiolo, un cagnolino fedele”.
Sorridevano dentro di sé dell’imbarazzo di Flaubert che, accusato di essere un sentimentale, si difendeva: “Ma sono anch’io un porco!”, evocando le sue esperienze mercenarie in Egitto con una donna che aveva “le natiche fredde come il ghiaccio”, ma dentro era “calda come un braciere”. Salvo, senza temere di contraddirsi, replicare a chi riduceva il sesso a una ginnastica salutare: “Quello che conta è l’amore, l’emozione, il tremito di stringere una mano”.
La realtà era sempre deludente: l’anziano teorico del dandysmo, Barbey d’Aurevilly, indossava pantaloni di lana bianca “che sembrano mutandoni”. Eppure “sotto questo costume ridicolo e pederastico c’è un signore dai modi eccellenti”.
Neanche la morte sfuggiva al loro sguardo disincantato: Quella di Victor Hugo – “titano del luogo comune” - veniva celebrata stancamente sui giornali proprio da Dumas che pure l’aveva sempre disprezzato apertamente. Solo le prostitute l’avevano omaggiato la notte prima dei funerali offrendosi gratis alla folla in lutto.
Grandi collezionisti del Settecento e profeti del nipponismo, i due si ritiravano a elaborare gli aneddoti appena vissuti nella loro squisita dimora, in cui ogni oggetto era stato scelto con cura. Spesso prendevano di mira l’egocentrismo dei colleghi. Niente sembrava arginare il narcisismo di Zola, inesauribile su se stesso, nemmeno l’insuccesso di uno suo dramma: “Mi ringiovanisce… mi ridà i miei vent’anni”.
O la meschinità di sua moglie che, con una voce aspra da pescivendola, infieriva sul romanzo su una prostituta dei poveri Goncourt, ampiamente superati dal loro emulo Zola: “Qui tutti sappiamo che in quelle case [chiuse] niente accade come è descritto nel libro”. Ma gli spietati fratelli, in viaggio con Zola, si vendicavano notando le ansie del presuntuoso collega, tormentato da una vescica esigente: “Il numero delle volte che piscia, o almeno tenta di pisciare, è inimmaginabile”.
Ma era sempre Zola che, in una sera di cattivo umore, si chiedeva, senza sapere di stroncare così i due diaristi: “La vita vissuta, la credete necessaria? So bene che è l’esigenza del momento, di cui siamo un po’ la causa… Ma i libri di altre epoche se ne sono infischiati…”.